Dal foyer della Fondazione Teatro Due di Parma, il pubblico entra direttamente in sala calpestando lo spazio “sacro” del palco. Una volta preso posto, gli occhi di ognuno puntano sulla scenografia: la Firenze del 1504, ma capovolta, poiché le case sono “sdraiate” a terra e rivolgono le loro porte e finestre al soffitto. Il primo attore fa il suo ingresso, ma la sua parlata non è comune: è il fiorentino del Cinquecento, un mixtus di versi e prosa tipici della canzone; intorno a lui, al narratore, si aggirano figure strambe e inquietanti: sono i cantori, ma indossano maschere raffiguranti animali. Il sentimento comune che si annida nell’animo del pubblico è, dunque, lo smarrimento, ma ciò che apparentemente pare non avere alcun senso, man mano lo acquista. Se così non fosse, non si potrebbe parlare di un’opera così ambigua come la Mandragola di Machiavelli.
Il regista Giacomo Giuntini e la compagnia stabile del Teatro Due hanno voluto mantenere intatti sia il contenuto e il linguaggio dell’opera sia l’intento originario del suo autore. Scritta intorno al 1518 e messa in scena a partire dal 1520, Mandragola indossa le vesti della commedia, ma nasconde in sé i sentimenti del disincanto e della satira, tipici di un uomo che sta abbandonando la carriera politica e diplomatica, per ritirarsi nell’otium della vita privata. Essa narra l’inganno ordito dal giovane Callimaco (Nicola Nicchi) nei confronti di Messer Nicia (Emanuele Vezzoli), uomo oltremodo stolto e marito di Lucrezia (Paola De Crescenzo), oggetto del desiderio di Callimaco e motivo di questa serie di intrighi. Con l’aiuto di Ligurio (Luca Nucera), un vero e proprio regista interno alla commedia, e il corrotto Frate Timoteo (Massimiliano Sbarsi), Callimaco può ben sperare di portare a termine il proprio piano.
È vero: «La favola Mandragola si chiama», ma non intendo svelare di più – benché la trama sia quasi universalmente nota – perché ritengo questo spettacolo una sorta di “viaggio nel tempo”, che merita di essere vissuto: «la cagion voi vedrete / nel recitarla».
Veniamo ora a sciogliere i nodi che hanno provocato non poco sbigottimento nella primissima fase della messinscena.
Il pubblico entra dalle quinte, quindi diviene esso stesso parte integrante dello spettacolo: la commedia deve essere, per lui, motivo di riflessione, uno specchio e uno spaccato della realtà che lo circonda. Tutto ciò è confermato anche dal fatto che gli attori occupino tutto lo spazio della sala, non solo del palco – emblematico il caso di Ligurio che, ad un certo punto, parla dal mezzo della platea –, come a far intendere che anche noi siamo testimoni consapevoli di ciò che sta accadendo e il nostro agire è tradotto in un silenzioso assenso o dissenso.
La città è capovolta perché così lo sono anche i valori morali: Mandragola celebra, infatti, il trionfo dell’inganno, della corruzione, della slealtà e dell’ignoranza; per questo motivo, come si evince dal prologo, lo spettatore non dovrebbe in alcun modo ridere di ciò che gli viene mostrato, anzi, dovrebbe inorridire: «Se vo’ non ridete, / egli [l’autore] è contento di pagarvi il vino». In quest’ottica si spiegano anche le figure carnevalesche che attorniano il narratore (Davide Gagliardini); le maschere che indossano raffigurano animali che, nei bestiari medievali, non godevano di buona fama: vi sono il coniglio e il caprone, simboli di lussuria, il pesce, che rappresenta “l’amante inseguitore”, l’asino, sinonimo di stoltezza, il lupo, che genera panico e paura, e infine la mosca, l’incarnazione di Belzebù. E sono i cantastorie a indossare queste maschere, coloro che, con i loro intermezzi (ballate originali cantate e musicate dal vivo) dovrebbero alleggerire l’atmosfera; invece “la meravigliosa e inesorabile soavità della Mandragola nasce appunto dal male, come un’inquietante rosa del deserto”.
Infine, arriviamo alla “questione linguistica”. Coraggiosa e non facile scelta – per il pubblico, ma soprattutto per il lavoro svolto dagli attori – quella di mantenere il testo originario, senza “facilitazioni” di stampo contemporaneo. Eppure, sebbene in un primo tempo si possano riscontrare alcune, ma lecite, difficoltà di comprensione, la sensazione che si percepisce non è quella di una lingua “attempata”, ma viva più che mai. Lo studio e il lavoro magistralmente condotti dai singoli attori hanno reso possibile e sensato un esperimento non sempre ben riuscito, poiché si potrebbe correre il rischio di incappare nella troppa artificiosità e pomposità: qui, Machiavelli torna in vita, con la sua lingua aguzza, schietta e colorita, come solo un politico – del tempo…– poteva avere.
Non ne abbia a male Machiavelli se qualche risata ci è sfuggita, ma era inevitabile: è sintomo di un teatro che non muore mai.
«Machiavelli raggiunge e scalza la radice della realtà, le operose quand’anche malvagie radici dell’uman vivere: sotto il drappeggio dei simboli di superficie gli impulsi veri, i succhi vitali e malefici ad un tempo che allacciano le ragioni della vita alle non-ragioni della morte.»
Carlo Emilio Gadda, La Mandragola filtro di giovinezza
Elementi di pregio: non credo di poter rendere mai sufficiente giustizia all’interpretazione degli attori. Di per sé, è già difficile trasmettere un messaggio o un’emozione, ma farlo in una lingua non più in uso e che comporta un duplice sforzo – di memoria e d’immedesimazione – non può che essere motivo di elogio.
Limiti: quando si è entusiasti di ciò che si è scoperto, è sempre molto complesso trovare dei difetti. Infatti, per quanto mi riguarda, non sono presenti. Vorrei solamente dare un consiglio a chi potrebbe sentirsi intimorito da un linguaggio non così facilmente comprensibile (e che potrebbe costituire un limite, per alcuni): rispolverare gli appunti e la trama di un’opera che, bene o male, si studia all’interno di molti percorsi scolastici, può essere molto utile ai fini della comprensione totale, oltre che a far godere appieno di un qualcosa a cui non si assiste molto spesso.
Mandragola di Niccolò Machiavelli
Visto presso Fondazione Teatro Due di Parma il 13 febbraio 2022
Con Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Nicola Nicchi, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Emanuele Vezzoli, Nanni Tormen
E con Jacopo Facchini (Alto e Maestro Concertatore), Maria Dalia Albertini (Soprano), Renato Cadel (Baritono e Liuto), Luca Cervoni (Tenore), Matteo Magistrali (Tenore)
Canzoni originali composte da Philippe Verdelot
Costumi Maria Giovanna Farina
Maschere Veronica Pastorino
Luci Claudio Coloretti
Assistente alla regia Francesco Lanfranchi
Regia Giacomo Giuntini
Produzione Fondazione Teatro Due
Fotografie Fabio Sau
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