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  • Claudia Burzoni

Ossicini | Storia delle cose perdute e ritrovate

Un nonno, vedendo la sua nipotina triste, la manda a raccogliere fiori nel bosco, fiori da donare alla nonna appena scomparsa. È un modo per distrarla, per farla sentire utile in un momento di grande sconforto per entrambi. La piccola si incammina verso la foresta, ma quando inesorabilmente il buio arriva, si ritrova da sola a temere le bestie feroci e le insidie della natura. Ha con sé solamente un ossicino, trovato poco prima, che diventa una specie di amuleto contro la paura e la solitudine. Avviene così un incontro surreale con la Lupa, una donna che vive e si aggira per il bosco in cerca di ossa. L’inquietudine della bambina si fa ancora più grande, ma quell’incontro, si renderà conto, le salverà la vita. «Tieniti stretto il tuo ossicino, non fermarti, e ritroverai la strada di casa». La bambina segue le istruzioni della donna. Stringe l’ossicino più che può e, quasi a occhi chiusi, comincia a correre. Corre, corre, quasi fino a svenire. Quando ha attraversato gli ultimi, altissimi alberi, scorge la casetta del nonno. L’incubo è finito.


Il nuovo progetto della Compagnia Rodisio (Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti), Ossicini – storia delle cose perdute e ritrovate, è un convivio dal quale lo spettatore può attingere porzioni delle più diverse emozioni. Ispirato dal romanzo di Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, ma con la riscrittura originale di Manuela Capece e Davide Doro, Ossicini conserva la figura archetipica della donna vecchia e saggia che si prende cura di tutto ciò che può perdersi ed essere perso, una conservatrice nel senso positivo del termine che si preoccupa di tramandare, attraverso la propria esperienza e dedizione, stratagemmi per sopravvivere e affrontare le angosce del presente pescando nel passato; una sorta di amorevole Baba Jaga che non divora i bambini, ma li guida. La platea, infatti, è prevalentemente composta da bambini piccolissimi che, solitamente, possono dimostrarsi gli spettatori più tenaci e coraggiosi, ma anche facilmente impressionabili e timorosi. Prendendo in prestito le parole dello stesso Davide Doro, si può comprendere quanto questo spettacolo si rivolga a un pubblico preferenzialmente infantile, che deve affrontare, proprio come la protagonista del racconto, una “prova di coraggio”: «Si parla sempre di rito, di viaggio iniziatico. Magari è la prima volta che questi bambini vengono a teatro e devono affrontare un piccolo viaggio, anche loro». Questa immagine, dei bambini che si fanno forza, stringono i denti per non lasciarsi turbare dalla figura della Lupa, è di un’innocenza disarmante, che noi adulti, ormai disillusi e temprati dai tanti ostacoli della vita, non possiamo più provare. E per questo motivo Ossicini e il suo ingenuo pubblico non possono essere scissi: l’uno vive e ha un senso grazie all’altro.


Ossicini_ph Stefano Vaja
Foto: Stefano Vaja

Da un punto di vista prettamente scenico e drammaturgico, scostandosi dalla sfera dell’anima, Ossicini non può non essere apprezzato anche dal più stoico pubblico adulto: non è la prima volta che, per descrivere il lavoro della Compagnia Rodisio, userei il termine “poesia”. Ogni cosa, dal disegno luci, alle scelte musicali, dai costumi e agli oggetti di scena, grida alla semplicità, ma possiede una forza comunicativa tale da non far distogliere lo sguardo. A livello compositivo «c’è un tempo umano e c’è un tempo selvaggio», sempre attingendo alle parole della Compagnia: la pièce, infatti, prevede un momento puramente narrativo, che mostra Francesca Tisano come narratrice extradiegetica che racconta le “gesta” della bambina protagonista ─ il tempo umano ─ , e una seconda parte, il tempo selvaggio: Tisano assume il ruolo della Lupa, abbandona le parole per lasciare spazio al linguaggio del corpo, facendo assistere il pubblico a un’ipnotica danza rituale. È una variazione di stile che avviene quando la Lupa, che ha finalmente trovato l’ultimo osso per ricostruire uno scheletro lupigno, al termine della magia, lo vede tornare in vita e ricominciare a correre. Potrebbero sembrare apparentemente due spettacoli distinti ─ caratterizzati l’uno dalla razionalità l’altro dalla visceralità ─ ma due segmenti così differenti ci trascinano, attraverso una sorta di innocuo baccanale, in un viaggio attorno al tema della cura. Ossicini insegna che non basta avere riguardo di un essere umano, sia esso un bambino o un adulto, non è sufficiente rispettare la natura se ci si dimentica di ciò che è nascosto, sepolto.

«Curare, coltivare, proteggere, riparare, accudire, conservare, custodire» non sono semplici sinonimi, ma rappresentano una scala evolutiva della cura. Il custus - il custode, per i latini - non era un soldato, non era una guardia, ma colui che aveva cura, che preservava dai pericoli e che provvedeva alle necessità. I romani avevano trovato un termine che spiegasse un concetto così complesso e così ampio; Compagnia Rodisio l’ha racchiuso in uno spettacolo.


Ossicini_ph Stefano Vaja
Foto: Stefano Vaja

Elementi di pregio: l’apparato visivo e visuale, di grande impatto emotivo e narrativo.

Limiti: la parte di narrazione, meno potente rispetto al secondo momento. Probabilmente, questa debolezza, è sintomo di una difficoltà di attenzione da parte dei bambini presenti, ma che non intacca la poeticità dell’intera performance.


Ossicini – storia delle cose perdute e ritrovate

Visto presso il Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti il 24 novembre 2022


Progetto Compagnia Rodisio

Di Manuela Capece e Davide Doro

Con Francesca Tisano

Tecnica Silvia Baiocchi

Scene e drammaturgia musicale Compagnia Rodisio

Costumi Patrizia Caggiati

Oggetti di scena Silvia Baiocchi e Paolo Romanini

Produzione Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti


oca, oche, critica teatrale
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