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Prendre soin di Alexander Zeldin | Il sonno della cura genera mostri

  • Clara Fedi - Serena Chiaromonte
  • 7 ore fa
  • Tempo di lettura: 6 min

Il viaggio del teatro sociale di Zeldin: da Beyond caring nella periferia londinese a Prendre soin al Metastasio di Prato


Nel 2014, sul palco dello Yard Theatre, nella periferia di Londra, tra industrie, fabbriche e piccoli negozi, viene allestita per la prima volta una sala d’attesa. È su quel palcoscenico che Alexander Zeldin, regista inglese trasferito in Francia, propone il primo capitolo della Trilogia della disuguaglianza: Beyond caring.

Nel 2015 la produzione dello spettacolo passa al National Theatre di Londra. Niente più periferie, al loro posto il centro di Londra, luogo dove nel 2010 hanno preso vita, sotto il governo Cameron, quelle politiche di austerità che prevedevano ingenti tagli al welfare con preoccupanti ricadute sulle fasce più povere della società inglese. La classe sociale rappresentata sulla scena dello spettacolo di Zeldin, al National Theatre, è quella investita dai tagli economici e a cui assiste un pubblico costituito, probabilmente, da coloro che quelle politiche le hanno promosse. 

Nel 2025, dopo un primo incontro con il panorama teatrale italiano all’edizione del 2024 di Presente indicativo di Milano, Zeldin ripropone  in una coproduzione tra Teatro Metastasio di Prato, Théâtre National de Strasbourg, Scène Nationale du Havre e con un cast stavolta francese  Beyond caring (“Oltre la cura”) cambiandone il titolo in Prendre soin (“Prendersi cura”). 


Un iperrealismo che spaventa per la realtà della finzione


Si fa fatica a riconoscere la finzione in questa pièce di Alexander Zeldin. Sul palco viene riprodotto uno stanzone tanto ordinato quanto asettico, dove i dipendenti, durante brevi pause, possono beneficiare di un tavolo con delle sedie e di una macchinetta del caffé malfunzionante. Lo spazio è delimitato da pareti scolorite, con piastrelle che, per quanto rigorosamente lucidate, appaiono opache e ingrigite, e da uno scaffale metallico con tutto l’occorrente per la pulizia. Nessun sipario cela la scenografia e lo spettacolo inizia quasi in sordina, complice l'uso delle luci, che non si abbassano, come di consueto, a indicare l’inizio della performance teatrale. 

Come la scenografia, anche i costumi di scena  entrambi firmati da Natasha Jenkins – prendono spunto dalla quotidianità del lavoro: sono costituiti da uniformi per le pulizie e vecchi vestiti per stare comodi. Nessun dettaglio vuole discostarsi dalla realtà, per quanto banale o squallida. È dalla somma di tutti questi elementi di estremo realismo che viene messa in risalto, per contrasto, l'umanità che si nasconde dentro quella fabbrica, nelle persone che vi lavorano, lontane dalle urgenze di un mondo lontano che chiede giustizia, valori, tutele ma senza mai riuscire ad essere udito sul serio.


Sei personaggi di cui non sappiamo niente, o quasi


Lo spettacolo si apre con i colloqui per il ruolo di addetto alle pulizie notturne in una macelleria industriale di qualche grande città. A valutare i candidati è Nassim (Nabil Berrehil), il capo settore deputato alla selezione. È una figura autoritaria, imbevuta di ideali maschilisti e di potere, che compensa le proprie mancanze credendo a teorie e guru vari del pensiero positivo. È l’unica figura maschile oltre a Philippe (Patrick d'Assumçao), addetto alle pulizie nell’azienda da due anni, anche se sembra che ci lavori da sempre. Ha una postura ricurva, preferisce stare in silenzio, come in risposta alla prepotenza delle parole di Nassim. Sembra molto più anziano di quanto probabilmente non sia, è pallido, spesso sudato. I candidati sono quattro. Il personaggio senza nome interpretato da Bilal Slimani ha un background migratorio. L’unico dettaglio che conosciamo di lui è il permesso di soggiorno scaduto. Per questo motivo viene cacciato duramente da Nassim, che lo prega di andare via e lo allontana fisicamente dalla scena, su cui non farà più ritorno. Sono tre le lavoratrici che superano le selezioni, venendo assunte:  Louisa (Lamya Regragui), Susanne (Charline Paul) ed Esther (Juliette Speck), che appartengono a vite, età e società distanti.

Susanne sembra la più anziana del gruppo, indossa un paio di scarpe comode che andavano di moda qualche decennio fa e si muove confusamente come se i suoi pensieri fossero perennemente altrove, attirati da qualcosa che non vediamo. Ha un carattere estremamente trattenuto. Vorrebbe nascondere l’imbarazzo e il disagio che prova ma risulta goffa e, per sbadataggine e distrazione, commette errori di cui poi si colpevolizza. Louisa appare austera e autonoma, lavora silenziosamente e si isola. A ogni pausa dal lavoro fa partire dal telefono una canzone pop, che canta ad alta voce ignorando la presenza dei colleghi. Anche se pare disinteressata e distante, in fondo le piace ricevere l’attenzione di chi la circonda pur rimanendo attenta, anche nei momenti di vicinanza, ad allontanare qualsiasi forma di affezione. A Esther, invece, la più giovane e di origine africana, viene negata la terapia per la sclerosi, in osservanza di un protocollo aziendale inflessibile che non prevede soste terapeutiche. Nonostante il progressivo aggravarsi del suo stato, la lentezza nei movimenti e l’alto rischio di rimanere bloccata, sublima la violenza con stoicismo, entrando in empatia con l’atmosfera circostante, provando tenerezza per la solitudine di Philippe e ridendo della sbadataggine di Susanne.  

Dalla trama dello spettacolo riusciamo a intuire solo alcune sfumature dei caratteri dei sei personaggi. Non c’è tempo per conoscerli e affezionarsi. Tutto ciò che sappiamo di loro si rivela attraverso il lavoro, dal contatto con oggetti inanimati per la pulizia tra cui una lavasciuga industriale soprannominata, non a caso, “la bête”, e attraverso interazioni brevi e umanamente fragili in cui emergono timide le singole necessità.  

Zeldin ci lascia pochissimi appigli, come se volesse farci provare il profondo senso di straniamento che si genera in un’esistenza prosciugata. 



Piccoli attimi di cura 


La breve pausa dal lavoro trasforma quella sala d’aspetto, che tanto sembrava una cella, in un inatteso diversivo, una parentesi in cui si insinua la cura. Qui viene letto un romanzo ad alta voce attorno a un tavolo, registrato un video di compleanno soffiando sulle candeline per una figlia lontana, avverata la promessa di una cena per due, consumata in fretta tra i turni in contenitori di plastica, ripiegato un giubbotto come se fosse un cuscino, su cui poter cadere in un sonno profondo.

Sono questi i soli attimi per cui vale la pena resistere, un piccolo spiraglio che permette a quegli adulti dai corpi stanchi e dagli umori fragili di sopportare l’odore putrescente di carne morta, la quantità di sporco da pulire, le condizioni di lavoro umilianti e i rapporti violenti.

Tutti quei piccoli gesti per “prendersi cura” della propria esistenza o di quella altrui, insomma, diventano atti di resistenza vitale, luci che non vogliono spegnersi, come quelle sfarfallanti dei neon che illuminano freddamente la stanza. Si tratta di istanti essenziali, tanto da essere inseguiti talvolta con esplosioni violente, nella richiesta urlata di essere visti, nella voglia quasi animalesca di un rapporto sessuale che però non riesce ad andare oltre l’amplesso.

Rimane tuttavia impossibile la fuga dall’alienazione del lavoro, che incombe con i suoi rumori metallici e minacciosi e con la fatalità del finale di una tragedia. Neppure lo stesso Nassim, giovane e ambizioso superiore, che ostenta maldestramente il controllo, può sottrarsi a questo annullamento. La convinzione che orgogliosamente illustra ai sottoposti sulla concentrazione e la risolutezza necessarie a perseguire i propri obiettivi e il suo “open mind thinking” non sono altro che l’inconsapevole adesione al sistema del sedicente “volere è potere”, per cui la povertà è sempre una colpa. 

Prendre soin | ph: Jean Louis Fernandez
Prendre soin | ph: Jean Louis Fernandez

Un’unica notte di torpore 


Il tempo drammatico coincide con quello della durata del contratto. La vita dei lavoratori è scandita da un susseguirsi di turni, intervallati solo da un assordante e indistinto rumore (forse quello dei macchinari diurni) e dal buio. L'esistenza, in queste notti che sembrano fondersi in una sola, è intorpidita e sospesa, e sembra svegliarsi davvero solo negli sporadici momenti di contatto umano che si consumano nelle brevi pause. 

È allora difficile pensare che la scelta della macelleria industriale sia casuale. Durante il finale, dalle tinte quasi horror, i cinque lavoratori si accaniscono con ritmo crescente nella pulitura delle macchine intrise di scarti di lavorazione e mentre l’ormai consueto rumore di fondo si fa sempre più forte le persone sembrano divenire un tutt’uno con gli oggetti inanimati, parte di una catena di montaggio e della fabbrica stessa. Viene in mente il video musicale di Meat is murder dei The Smiths, in cui mentre immagini di mucche al pascolo scorrono davanti ai nostri occhi, sentiamo i suoni inquietanti dei macelli. Anche in quel caso a essere spaventoso è quanto ci appaia naturale, quotidiana, dunque innocua la violenza. Il frastuono intanto aumenta, fino a culminare nel buio e in un forte sciabordio d’acqua. Si ha così la sensazione che sia l'umanità stessa a venire spazzata via.


Prendre soin | ph: Jean Louis Fernandez
Prendre soin | ph: Jean Louis Fernandez

Prendre soin, visto a Prato il 26 ottobre 2025 al Teatro Metastasio


testo e regia Alexander Zeldin

aiuto regia Kenza Berrada

scenografia e costumi Natasha Jenkins

disegno luci Marc Williams

disegno del suono Josh Grigg

movimenti Marcin Rudy

con Nabil Berrehil, Patrick d'Assumçao, Charline Paul, Lamya Regragui, Bilal Slimani e Juliette Speck

produzione Compagnie A Zeldin

in coproduzione con Théâtre National de Strasbourg, Teatro Metastasio di Prato, Théâtre des Célestins, Le Volcan - Scène Nationale du Havre

con la partecipazione artistica di Jeune théâtre national

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Illustrazioni a cura di Michela Fabbri | Illustrini

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