La prima delle quattro domande poste a quella parte del teatro ligure che è riuscita a raccontarci come sta, o meglio come è stata, in un tempo racchiuso tra l'inizio dell'emergenza sanitaria e domenica 10 maggio 2020, data di chiusura della nostra raccolta di risposte.
Il punto di vista di questa osservazione è di Marta Cristofanini.
Domanda (1): Da un punto di vista umano, cosa ha significato per te la chiusura dei teatri? Come stai vivendo questo periodo di serrata a livello personale?
“Che tu sia per me il coltello”.
È questa frase, rubata a David Grossman, che per me meglio descrive l'approccio dell'arte al reale e alla cultura che lo disciplina. L'idea di qualcosa di affilato, di estremamente sensibile, che come uno scalpello si insinua lungo i fianchi dell'anima, e la libera, scostandola impercettibilmente dall'involucro guardingo da cui è circondata.
L'arte è emozione primordiale e raffinata al tempo stesso, prodotto sofisticato ed elementare dell'umano, che parte da una preistoria seduta in grembo al terrore della notte per tramutarsi in paziente sistematicità, scendendo a patti con le Muse, in bilico tra intuito e artificio, in un bilanciamento perfetto tra pratica e teoria.
Quella che abbiamo proposto ai nostri artisti di teatro in questo tempo ghiaccio di crisi transitoria (?) è stata una domanda di cuore, una domanda di pancia, rivolta a chi con il cuore, con la pancia ci lavora. Una domanda che, per chi è costantemente allenato all'introspezione e al contatto con le proprie emozioni, può risultare avvincente (“Domanda difficile, e bella”) oppure dolorosa. C'è chi si è sentito più vulnerabile ed esposto al pessimismo. Disastro, sofferenza, una mancanza fisica che si traduce negli estremismi di una deprivazione vitale. E in effetti, “dare la vita” al Teatro, può essere interpretata – soprattutto in tempi ingrati come questo, e non parlo del Covid-19 - tutt'altro che come una metafora. Ma se il disappunto, lo shock iniziale dato dall'imbattersi bruscamente in uno stop forzato, in una battuta d'arresto, ha generato dapprima una sensazione di panico, di frustrazione, di horror vacui, è nel dopo che risiede la bellezza. In quella capacità di rielaborazione che sembra quasi venire istintiva.
La bellezza è soffiare sopra lo sgomento iniziale, e vedere delinearsi una risposta, più risposte: la dinamicità dei muscoli che cambiano ritmo e si adattano a un diverso spazio scenico; il tempo che si dilata per continuare a indagarsi, a nutrirsi di cose di cui forse prima ci si era un po' privati e adesso, perché non approfittarne?; c'è anche la consapevolezza di un tempo che, oltre a essere individuale, può divenire politico: non tutti vogliono unirsi all'andrà tutto bene nel momento in cui emerge la possibilità di un'altra ipotesi, quella dell'andrà tutto meglio. D'altronde, come ricorda qualcuno di loro, il “guardare insieme” è la potenza genuina dello spettacolo. E benché manchi a noi tutti l'atto fisico di per sé, è nella sua interpretazione simbolica che possono nascere nuove prospettive.
Lo so, è una parola abusata, come spesso capita in questi casi si è consumata in fretta, in masticazioni che l'hanno resa via via sempre meno interessante. Ma io la raccolgo e qui la ripropongo, dandole qualche colpetto di incoraggiamento sulla schiena: la parola è resilienza. Perché, nel quadro psicologico che mi si è composto davanti, ce ne vedo tanta. Perché ci vedo stupore, intelligenza, organizzazione, ci vedo una bellissima “pellaccia” resistente, in grado di tuffarsi in profondità, di non sedimentarsi, di rivoluzionarsi dentro, e fuori, e in moltissime direzioni. Ci vedo, come sempre, la generosità, la forza tellurica di un mestiere che si è scelto e che si continua a scegliere.
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