top of page
  • Marta Cristofanini

Traces di Wim Vandekeybus | Apocalypse Bears

Dopo un combattimento, un incidente, un fatto che possiamo definire più o meno violento – sicuramente traumatico – il corpo e l’anima portano impressi su di sé i segni di ciò con cui siamo entrati in collisione. Se freschi, questi segni possono essere chiamati ferite; se le ferite si sono rimarginate, cicatrici.

Le tracce aperte sul palco dai dieci danzatori della compagnia Ultima Vez, fondata e diretta dal coreografo belga Wim Vandekeybus, sono ferite difficili da rimarginarsi, e cicatrici che continuano a riallargarsi per farne sgorgare, prepotentemente, un sangue inquieto.



Come in un oscuro cerimoniale, lo spettacolo – che ha debuttato a fine 2019 al Festival Europalia, dedicato quell’anno alla Romania – mette in scena il duello sacro, notturno, primitivo, tra natura e civilizzazione. Al di là dell’ambientazione onirica (benché ispirata alla natura rumena), emergono chiare le tematiche guida di questo spettacolo, fortemente impregnato di critica sociale e ambientalismo.


Una foresta vergine squarciata da una strada statale: questo lo scenario in cui noi spettatori ci addentriamo per 90 minuti, tra gitani, orsi, spiriti, fantasmi, morti e rinascite. La drammaturgia mi ha ricordato una riscrittura in chiave dark del Sogno di una notte di mezza estate: come nella commedia shakesperiana, il confine tra sogno e realtà è labile e le metamorfosi animali vengono normalizzate durante questa lunga notte dove sembrano essere gli spiriti del bosco a divertirsi e a farla da padroni.

I corpi delle danzatrici e dei danzatori di Vandekeybus sono a loro agio nell’incarnare queste figure paniche, selvagge, sregolate, liquide: che si tratti di interpretare il gruppo di gitani umani che vagabondeggiano tra una sponda e l’altra della strada, delle creature ibride o gli spiriti animali da cui sono al tempo stesso protetti e minacciati, sfoggiano un’arte fisica che fa del trasformismo la sua qualità più distintiva.



L’unico animale che non viene solo evocato dalle movenze degli artisti ma compare in scena fisicamente è l’orso: una delle protagoniste partorisce e si prende cura di un piccolo orso di peluche, costantemente minacciato dagli umani sul palco, che provano a ucciderlo a più riprese; talvolta ci riescono ma, come in un sogno, l’orsetto rivive, come muoiono e rivivono (spesso trasmutati) tutti i protagonisti in scena.

Mentre cervi, scorpioni, creature dall’istinto animale sono evocate con il solo ausilio di questi corpi sbalorditivi, quasi sovrannaturali, l’orso è una sorta di creatura principe: rappresenta speranza e rinascita ma anche morte e distruzione. Ciclicità. Durante la scena finale viene inscenata una sorta di apocalisse animale; gli orsi – dopo aver assistito al duello finale tra forze naturali e forze urbane, tra la strada che cicatrizza il proprio catrame sul piumaggio fresco della foresta e la foresta stessa, che reagisce con tutta la propria spiritualità ancestrale – decidono di porre fine a questo continuo alterarsi di un equilibrio intossicato dal potere. Come? Azzannandolo, sbranando tutte le creature superstiti e sradicando con le motoseghe la foresta stessa. La vittoria dell’istinto prevale in modo chiaro sulla degradazione e la miseria rappresentate da un’umanità confusa e avida, che in nome di un mondo “civilizzato” lascia dietro di sé sanguinose, incicatrizzabili tracce.


Una scena liberatoria, anarchica: sembra in effetti interrompere il sogno burtoniano in cui siamo immersi per scaraventarci nella realtà splatter di un film di Tarantino. Per quanto in qualche modo motivato dai fini drammaturgici, mi è sembrato personalmente un atto finale “ritardato”, che arriva dopo essersi già lasciati alle spalle la temperatura emotiva giusta, definitiva. La scelta di Vandekeybus è tuttavia chiarissima: è con il sangue, in questa sorta di genocidio sacrificale, che si chiude l'eterna lotta dicotomica tra natura e cultura, tra istinto e ragione. Una speranza? Una premonizione? Non facciamo in tempo a elaborarlo che le luci in sala si accendono, la nebbia del sogno si dirada, e noi dobbiamo rimetterci in cammino, sulla strada.



Pregi: Vedere in scena gli artisti di Ultima Vez per chi fa, studia, vede, vive la danza è un po’ come il detto: “Vedi Napoli e poi muori”. Sì.


Limiti: Nonostante l’immersione totale in questa piéce tormentata e intensa, ho trovato la durata un po’ lunga, con un finale che veniva cocciutamente ritardato, e che mi ha fatto perdere un po’ l’energia catartica della visione. I temi suggeriti erano molti, forse troppi, e questo a volte risultava un po’ offuscante rispetto a quel che veniva narrato fisicamente sul palco.


Visto a Genova al Teatro della Tosse il 6 ottobre 2021.


Regia e coreografia: Wim Vandekeybus

Creato e interpretato da: Alexandros Anastasiadis, Borna Babić, Maureen Bator, Davide Belotti, Pieter Desmet, Maria Kolegova, Kit King, Anna Karenina Lambrechts, Magdalena Oettl and Mufutau Yusuf

Musiche di: Trixie Whitley, Shahzad Ismaily, Ben Perowsky and Daniel Mintseris Drammaturgia: Erwin Jans

Costume design: Isabelle Lhoas

oca, oche, critica teatrale
bottom of page