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  • Marco Gandolfi

Arlecchino servitore di due padroni | Binasco "contra" Strehler


Il nuovo adattamento che Valerio Binasco compie del seminale Arlecchino servitore di due padroni sostituisce la commedia dell'arte con la cosiddetta commedia all'italiana, trasforma le maschere goldoniane in personaggi del realismo pretelevisivo alle soglie della postmodernità nostrana, e scava in questo universo rinnovandone la parola e l'estetica. Questa è, in poche parole, la radice ideologica e l'anima di uno spettacolo che ha in realtà un'ambizione ben più radicale, se possibile, ed è destinato fin dalla sua concezione a fallire. Ma paradossalmente - e probabilmente nelle intenzioni - questa impossibilità a riuscire è la condizione per far dialogare l'esito drammaturgico con il monumentale riferimento che Binasco prova a smuovere con il suo lavoro.

Per lo spettatore italiano, dal dopoguerra ad oggi, infatti, esiste una triade, non un semplice binomio Arlecchino/Goldoni: il terzo nome è Strehler. Lo storico e celebre allestimento del maestro triestino, ininterrottamente in scena al Piccolo Teatro dal 1947, è diventato il canone attraverso cui vedere e interpretare la classicità delle maschere di Goldoni.

Ebbene, tutti gli elementi di base di questa interpretazione - le maschere, l'equilibrio perfetto tra comicità fisica e verbale, la lingua veneziana, il metateatro - sono o completamente cancellati da Binasco o comunque trasformati fino all'irriconoscibilità.

L'operazione del regista alessandrino - e direttore del Teatro Stabile di Torino - merita ammirazione non solo per il coraggio di affrontare un mostro sacro, ma per le intenzioni di mutarne l’immaginario di riferimento, ovvero il passaggio da un teatro di maschere a uno di personaggi, seppur incardinati nel modello della commedia all’italiana. Ammirazione anche per quel fallimento necessario a cui si accennava prima: per chi ha visto il lavoro di Strehler la sensazione è di un dialogo ossessivo con questo riferimento, una lotta impari, un abbraccio tanto più stretto nel momento di massimo ripudio.

Ripudio che comincia dall'elemento di base della commedia dell'arte: la maschera. La maschera è anche un riferimento extratestuale a un un carattere più che a un personaggio, a qualcosa che esiste altrove e ha una sua genealogia. Questa linea di eredità qui è rimossa e trapiantata sul tronco di una commedia all'italiana anni '60, sul limitare della trasformazione televisiva. La coerenza e la costruzione delle scene sono eccellenti, dai costumi, agli interni che evitano comunque una eccessiva mimesi, fino alla recitazione. Questa traslazione cancella la maschera per far nascere dei personaggi, seppur filtrati attraverso questa nuova tradizione della commedia all’italiana.

Questo spostamento di canone interpretativo comporta un grande rivolgimento: il fondo lugubre e cupo della vicenda emerge con più chiarezza. Arlecchino è una disperata pallina impazzita nella grottesca e piccola vicenda matrimoniale che fonda l'intreccio narrativo del testo. La comicità fisica ed esplosiva delle maschere qui è cancellata da un'ironia amara e scabra; i pezzi più comici e isolati dedicati ad Arlecchino sono assemblati in un flusso meno dinamico e più realistico, derubricandoli a momenti di intermezzo, anziché a sgangherate esplosioni che portano gradualmente alla deflagrazione caotica dei fraintendimenti nel prefinale. Il finale diventa una dissolvenza nel tedio della normalità, più che la pacificazione sorniona di ogni lotta: coerentemente Binasco chiude senza entusiasmi la vicenda, con la celebrazione dei tre matrimoni annunciata in un contesto piccolo borghese.

La commedia degli equivoci qui ha una luce di ridicolo senza levità, dove in Strehler ha il nerbo dadaista dell'anarchia a programma. Binasco continua a farci ridere, molto, ma diversamente: meno per la fisicità delle scene, più per le invenzioni verbali goldoniane che mantengono intatte forza e incisività, e sono forse più libere di esprimersi senza l'ombra dei numeri slapstick.

Ma la sensazione costante è quella di assistere a un rito voodoo, o una variante necromantica di un omaggio teatrale: il corpo della drammaturgia strehleriana risorge ricoperto di bende, trasformato senza possibilità di riconoscimento. Non è una citazione, non è una chiosa: è un dialogo camuffato da allontanamento, una evocazione da seduta spiritica.

Natalino Balasso dà vita a un Arlecchino fosco e patetico, in bilico tra la simpatica canaglia e l'approfittatore. Curiosamente ma non troppo, quando la maschera sembra vittima, il personaggio sembra colpevole: non bisogna troppo sorprendersi di questa inversione interpretativa perché, al di là dei fini, in etica contano le intenzioni. E i personaggi appunto, a differenza delle maschere, hanno un'etica.

Le due figure paterne, Pantalone de' Bisognosi (Michele Di Mauro) e il Dottore Lombardi (Fabrizio Contri), sono quelle meglio recitate e rese più coerenti possibili con l’ispirazione di fondo della messinscena. La loro ossessione per lo status sociale durante la lunga trattativa matrimoniale per sposare la figlia Clarice del primo con Silvio, erede del secondo, è esaminata sagacemente lungo l'intero arco narrativo. L'oscillazione tra amicizia e odio, tra guerra e riappacificazione è resa senza esagerazioni comiche gratuite. Ne beneficia anche il personaggio di Silvio (Denis Fasolo), forse l'unica vera vittima della vicenda insieme a Clarice, che risulta credibile e per il quale si riesce a provare pena.

Questa versione dell'Arlecchino guadagna in empatia e amarezza quanto perde in carica esplosiva e comicità senza responsabilità. Il burattino si trasforma in bambino, la maschera svela il personaggio: questa trasformazione scombina tutto, scardina etica ed estetica dello spettacolo.

Come tutti i ripudi paterni però, Binasco compie un estremo atto d'amore verso Strehler: non si può fare un Arlecchino senza evocare la sua versione, confrontarsi e definirsi su questa. La messinscena è la differenza rispetto a un parametro quasi leggendario, ma appunto una differenza, che presuppone sempre e comunque l'origine.

Elementi di pregio: la capacità di donare nuova linfa al soggetto dialogando con altre interpretazioni.

Limiti: la perdita della componente più fisica della comicità e dell'anarchia della commedia dell'arte.

Visto al Teatro Elfo Puccini martedì 28 gennaio 2020.

Arlecchino servitore di due padroni

di Carlo Goldoni

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

luci Pasquale Mari

con Natalino Balasso, Fabrizio Contri, Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati

assistente regia Simone Luglio

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Chiara Lanzillotta

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

oca, oche, critica teatrale
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