top of page

Hystrio Festival 2025 | Come è possibile il teatro in tempi sempre più duri?

  • Clara Fedi
  • 13 minuti fa
  • Tempo di lettura: 9 min

Come scrivevamo un anno fa, anche quest’anno è arrivato settembre. E, a distanza di un anno, anche questa volta Hystrio Festival si conferma una linea di passaggio tra ciò che finisce - l’estate e i festival - e ciò che sta iniziando - l’autunno e le stagioni teatrali. 


Nulla è cambiato: Milano è sempre la stessa città in fermento, in Corso Buenos Aires si respira la stessa aria movimentata, e pure l’Elfo Puccini è rimasto fedele alla sua apparenza estatica e maestosa. Ad essere cambiato, a un anno di distanza, è forse il clima generale. Io arrivo di venerdì con il tramonto e, una volta davanti l’Elfo, realizzo che quel foyer che un anno fa mi era parso crocevia di incontri, confronti, conoscenze e saluti rapidi, quest’anno mi pare più silenzioso, meno denso, con un’altra grande presenza a occuparlo che si muove mestamente tra gli spazi, ed è qualcosa che somiglia alla preoccupazione. 


«Che tempi sono questi, in cui parlare degli alberi è quasi un crimine, perché implica il silenzio su tanti misfatti?”. È così che mi sento: come qualcuno che tace dicendo molte parole», scrive Milo Rau in una recente lettera, citando A coloro che verranno di Bertold Brecht. Qual è il senso del teatro in un momento di delicatezza e di crisi? 


Il silenzio dentro il foyer dell’Elfo Puccini ha tanto da dire delle vicissitudini che si sono affastellate nel corso di questi mesi, fuori e dentro gli spazi teatrali. A partire dalla guerra: se un anno fa il conflitto israelo-palestinese era rimasto un argomento tangente ma mai penetrante del festival, quest’anno vengono esposte bandiere della Palestina a conclusione degli spettacoli, vengono recitate poesie militanti di poeti palestinesi (Noi qui resteremo di Tawfik Zayyad), viene riportata alla memoria la condizione di Gaza. Pure il luminoso schermo esterno dell’Elfo si fa cornice di tali scelte politiche proiettando, in alternanza con le immagini della stagione teatrale, scritte che sottolineano che il teatro Elfo Puccini ripudia la guerra. 


Come se non bastasse, alle scosse di un mondo che crolla in lontananza si sono aggiunte altre scosse, di diversa natura e di portata inferiore ma più vicine, che hanno fatto tremare dall’interno varie istituzioni teatrali: con le leggi imposte dal Decreto Ministeriale dell’8 agosto 2025 sui finanziamenti statali a compagnie e teatri, si è paventata la fine della funzione pubblica del teatro, un impoverimento delle risorse, lo scollamento di interessi tra produzione e ricerca e, quindi, un’accentuazione del conflitto e delle frustrazioni già presenti in un settore che da tempo, nel panorama culturale nazionale, si sente sotto minaccia.


Per questi motivi e per molti altri, critici, attori, registi, spettatori e volontari continuano ad incontrarsi di passaggio nel foyer, nel Corso per una sigaretta, al bar per mangiare qualcosa assieme o sulle poltroncine delle sale Fassbinder e Shakespeare, ma con toni più pacati dello scorso anno, come a chiedersi “Che cosa stiamo facendo?”, “Che cosa abbiamo fatto fino ad ora?”, " Ha ancora senso vedersi dentro un festival?”.


La prima sera assisto alla performance K(-A-)O di Kenji Shinohe, e poi alla lettura scenica del testo Glenn, una variazione di Jonathan Lazzini, per il progetto Il Copione di Situazione Drammatica. In entrambi i casi mi rendo conto di star cercando, in mezzo alle poltroncine e sui due palchi, le ragioni di quel disagio percepito all’arrivo, o un messaggio che, attraverso lo spettacolo, mi permetta di avere più strumenti di quando sono entrata per affrontare il mondo fuori. Un po’ ambizioso, ma d’altronde la questione che rimane sospesa nel corso del Festival e che fa da filtro dei giorni a cui assisto rimane: quale è la funzione di un festival di teatro in tempi di crisi? Cosa è urgente?


In questo caso, esco con un senso di confusione: K(-A-)O si concentra sull’espressione delle emozioni nel mondo del virtuale. Il performer entra ed esce di scena su musiche ad alta velocità, balla, imita i movimenti di una tastiera sezionando ogni parte del proprio corpo, non parla mai, ma si esprime attraverso cartonati che fungono da maschera su cui è rappresentata una emoticon fatta da simboli della tastiera come -.- oppure :-). 


K(-A-)O di Kenji Shinohe | Foto di Gabriele Conti
K(-A-)O di Kenji Shinohe | Foto di Gabriele Conti

Jonathan Lazzini, invece, propone un monologo dal punto di vista di Glenn Gould, pianista e compositore canadese nato a Toronto nel 1932, che ha fatto della sua vita un concerto. Lazzini si concentra sulla personalità del pianista, restituendone sfumature di isolamento e malinconia, rappresentate anche nella scenografia davanti a cui recita l’attore Giovanni Franzoni, tra pezzi di carta stropicciata, vestiti sciatti e la postura sempre scomoda su delle poltroncine di velluto. Nonostante le interessanti ricerche di entrambi gli artisti, i lavori mi arrivano da una certa distanza. Una lettura scenica che rimane nel contesto del bello e dell'efficienza e una performance che risulta affascinante in termini di intrattenimento ma che poco hanno di reale, di tangibile con ciò che sta accadendo fuori.


Lettura di Glenn, una variazione di Jonathan Lazzini| Foto di Alessia Stefanini
Lettura di Glenn, una variazione di Jonathan Lazzini| Foto di Alessia Stefanini

Mi avvio verso casa  con un senso di confusione: non mi aspetto che a teatro si parli solo di attualità, di grandi temi, di tempi difficili. Ma qualcosa che mi aspettavo succedesse non è successa. Forse, ingenuamente, speravo in un più facile accesso a quel sentimento complesso di catarsi che solitamente scaturisce dalla visione degli spettacoli, ma che stavolta ha dovuto scontrarsi con un sentimento altrettanto complesso scaturito dagli ultimi eventi di attualità. 


Rimango con queste domande sospese tra i pensieri, quando il giorno dopo mi imbatto in una volontaria che suona un campanello di allarme: «È strano - dice -  assistere allo svolgimento di un festival mentre fuori tutto va al contrario». Il pomeriggio mi ritrovo a far parte di un corteo organizzato dalla rete No CPR di Milano, che si batte per la chiusura dei Centri di Permanenza per i Rimpatri di migranti con permessi di soggiorno irregolari e che, in corteo, ha sentito il bisogno di utilizzare le arti performative come strumento di comunicazione e di attivismo: prima della manifestazione, un collettivo locale si esibisce in una performance di ballo che rievoca ciò che nel febbraio 1973 successe a Trieste, quando, per la prima volta in Italia, i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste uscirono in città, trainati da Marco Cavallo, assieme a Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia. 

«Mi chiamo Marco Cavallo e ho avuto già due vite: una dal 1959 portando il carretto dei rifiuti del Manicomio di Trieste e una come cavallo azzurro che sfida i muri» leggo in un foglietto che mi viene regalato dal collettivo.

Quel cavallo, simbolo di una rivoluzione dolce, di libertà e di desideri, si trovava ora a Milano, vestito di nuovi valori, e di nuovi compiti per il futuro. 

Vivo una sorta di inversione dei ruoli: il teatro fuori dai teatri acquista un valore aggiunto in tempi in cui la politica diventa ridondante, asettica, distante, mentre il teatro dentro i teatri diventa altrettanto distante dal bisogno di incontro e di dialogo del presente.


Marco Cavallo, scultura nata presso l’ex-manicomio di Trieste |Foto di Clara Fedi
Marco Cavallo, scultura nata presso l’ex-manicomio di Trieste |Foto di Clara Fedi

«C’è un verso del poeta ebreo-americano Delmore Schwartz che amo molto - riprende Milo Rau nella sua lettera - “Il tempo è la scuola in cui impariamo, il tempo è il fuoco in cui bruciamo”. Bruciamo e impariamo allo stesso tempo, siamo artisti e attivisti allo stesso tempo. Smettiamo di tacere. Prendiamo una posizione chiara. Solo così potremo salvare la nostra arte, il teatro: questo luogo vulnerabile e riflessivo in cui cerchiamo insieme la bellezza e la comunità».


C’è una ricerca collettiva di catarsi. Lo capisco durante i due spettacoli del sabato sera: A.L.D.E Non ho mai voluto essere qui e ANSE, rispettivamente di Giovanni Onorato e di Usine Baug e Mezzopalco. Nel primo, in sala Fassbinder, si parla di perdita e di urgenze. Il secondo, in sala Shakespeare, è invece il viaggio in una notte buia e piovosa di un giovane innamorato. Ad accomunare i due spettacoli, la fruizione: entrambi si arrogano il compito di comunicare un disagio, sperimentando linguaggi diversi. 

Giovanni Onorato è in scena con Mario Rossi, seduto di lato in mezzo a un semicerchio di sintetizzatori, tastiere, tromba e piatti della batteria, che lo ascolta parlare della morte di un loro caro amico che scriveva poesie. Così, mentre si appresta a raccontare il suo rapporto con Arduino Luca degli Esposti (ALDE), Onorato declama poesie dell’amico scomparso, le canta con l’accompagnamento di Mario che lo segue creando nuove melodie in scena, le restituisce tramite il rap, cambia il tono della voce, usa i sintetizzatori per modificarla, li adatta ai suoi sentimenti. Il risultato è uno spettacolo in cui la centralità della parola rivendica un nuovo modo di stare sul palco e di fare spettacolo, costruendo un dialogo tra i contenuti (la drammaturgia, la poesia) e le forme (il rap, i sintetizzatori), e tra chi sta sul palco e chi nel pubblico (che, durante lo spettacolo, segue il ritmo, si sforza di capire le parole, di immaginare il testo recitato da Onorato, che balla da solo, mentre canta, segue il ritmo di Rossi guardando un punto fisso). Un attore che fa della ricerca il suo modo di stare sul palco, dando vita a qualcosa che non è più solo spettacolo, ma che si avvicina alla forma del concerto e della contestazione. 


A.L.D.E. di Giovanni Onorato | Foto di Chiara Corradini
A.L.D.E. di Giovanni Onorato | Foto di Chiara Corradini

ANSE, subito dopo, si inserisce perfettamente in questa dinamica trasformativa della drammaturgia e la esaspera: Riccardo Iachini del collettivo Mezzopalco sale sulla scena a spettacolo già iniziato: scendendo le scale dal fondo della sala Shakespeare, a luci ancora spente, non si presenta e comincia a recitare una poesia: “Ti amo quando l’anse è più basso”. Non si capisce il senso, ma non è questo il punto. “A seconda dei momenti in cui la sinusoide snoda l’ansa”. Parole poetiche si riversano in uno spazio che gocciola, e si disperdono come onde, le une dietro alle altre. “Essere molti, sembrare uno”. Tutto lo spettacolo si svolge nel tempo di una notte in cui il protagonista compie un soliloquio che parla di amore, di angoscia, di solitudine. “Un corpo di frammenti amore mica si rompe, al massimo si agita, e agitando si spezza, e spezzando si danza”. Portare la poesia negli spazi ibridi e inconsueti, renderla atto performativo attraverso la sonorizzazione di input vocali grazie a sintetizzatori e ripetitori, renderla teatrale attraverso la scenografia notturna, i cambi di luci, gli effetti sonori, gli orari della notte scanditi da disegni di orari su pezzi di scenografie sempre diversi. Alla fine dello spettacolo, gli attori aprono un cassetto da cui tirano fuori un foglio molto grande. C’è scritto Noi qui resteremo, ed è la poesia di Tawfiq Ziyad citato poco sopra, che assomiglia a quelle dello spettacolo e che parla di rabbia, di rivincita, di una collettività, di futuro: Noi qui resteremo/ riempiremo le prigioni di dignità/ A Lidda, a Ramlah, in Galilea/ Noi resteremo qui/ a custodire l’ombra dei fichi e degli ulivi/ e per far fermentare la ribellione nei nostri figli come lievito nella pasta. Stavolta politica e teatro non si sfiorano e basta ma si uniscono. La poesia rimane registrata in un loop di almeno cinque minuti, in cui parole cariche di significato girano a vuoto in sala. Dopodiché, lentamente, con teste chine e occhi fissi, gli spettatori si alzano per uscire. 


ANSE di Mezzopalco e Usine Baug | Foto di Pietro Pingitore
ANSE di Mezzopalco e Usine Baug | Foto di Pietro Pingitore

Faccio caso solo a posteriori, di essermi spesso concentrata sugli occhi degli attori. Come a cercare qualcosa, come a scavare più a fondo delle parole e delle labbra. Un significato, un’urgenza, un bisogno. 


Lo cerco negli spettacoli, negli interventi, nei critici, nella lettura di Hinterland, copione di Federico Malvaldi letto a tavolino da Chiara Stoppa e Giuliana Vigogna in un testo che le vede incontrare dentro un McDonald’s di una periferia non ben definita. Una di ritorno da un centro, una che non si è mai spostata dall’hinterland. Le due attrici si guardano come se si conoscessero e come se conoscessero la realtà che stanno raccontando. Ci trovo un’umanità diversa da quella rappresentata fino ad ora, sento un linguaggio più vicino al quotidiano, vedo un teatro che scopre le incomprensioni dei rapporti umani nella velocità del tempo presente e li rende performativi. Sento una sensibilità delicata nei confronti di rapporti violenti ed incompresi, un tentativo di rimettere insieme pezzi spesso abbandonati a sé, lontano, nelle periferie, una possibilità nuova di comprendere, di rivalutare, senza giudizio ma con rinnovata curiosità. Sento un senso di movimento, un cambiamento che genera catarsi.


Lettura di Hinterland di Federico Malvaldi | Foto di Alessia Stefanini
Lettura di Hinterland di Federico Malvaldi | Foto di Alessia Stefanini

Lo cerco nella serata conclusiva in cui assisto alla cerimonia delle premiazioni. Come se fosse uno spettacolo, osservo i ruoli, ascolto i discorsi dei premiati come se fossero pezzi di testi, i silenzi, i tempi calcolati. L’unico momento che mi sembra rompere questo schema viene verso la fine quando Valeria Perdonò, la presentatrice della serata, prende in mano il microfono e si fa spazio. È solo una frase, questione di pochi secondi, che mi colpisce: «Scusate se siamo ripetitivi - guarda in basso, si guarda intorno -  ma di questi tempi - continua - chiunque abbia un minimo di spazio per parlare lo usa per dire due cose » e chiude con le stesse tematiche più volte riprese che contribuiscono a far tremare la solidità del teatro e, in esso, del festival. Parla della precarietà e della difficoltà di trovare lavoro in ambito teatrale, menziona contratti troppo brevi, paghe troppo basse. Non sapremo mai se le sue parole nascano da un codice premeditato o da un bisogno spontaneo, ma la sua voce a tratti rotta, a tratti riflessiva, sta guardando forse più lontano, forse a tutto ciò che verrà. Dopo una breve pausa, riprende sull’importanza di fare rete, e non si sa se lo stia dicendo a sé, alla platea - per la prima volta piena - o se lo ripeta per paura che finisca sotto altre urgenze. 


Pubblico in sala | Foto di Gabriele Lopez
Pubblico in sala | Foto di Gabriele Lopez

Solo per una frazione di secondo, nel tempo in cui quel microfono rimane sospeso in aria tra due mani che lo stringono, ho l’impressione che il teatro Elfo Puccini sia diventato non solo un luogo di passaggio in cui potersi fermare, riconoscersi, ripartire, ma che per qualche istante il festival si sia trasformato anche nella possibilità di riflettere su ciò che valga veramente la pena d’esser salvato, detto, rappresentato, scartando strati inutili di parole e di difesa, concedendosi una riflessione almeno, sulle urgenze di questo Paese, del Teatro e, in un certo senso, del futuro.

Commenti


oca, oche, critica teatrale
bottom of page