Qualunque recensione di un classico moderno quale Aspettando Godot deve fare i conti con la vastissima letteratura interpretativa del testo e delle sue rappresentazioni. Anzi questa sterminata duttilità di significato è la cifra della sua classicità: come nel miglior Shakespeare, per fare solo un esempio, siamo di fronte ad un’opera-mondo, che borgesianamente aspira a scrivere l'universo stesso. In questo caso in particolare il senso dell'essere umano.
Cimentarsi quindi in una versione di Aspettando Godot è come misurarsi con una delle sfide più profonde possa proporre il teatro. Ogni regia deve compiere delle scelte su un testo così ambizioso e ampio per portarne alla luce uno o due aspetti particolari; non farlo nell'illusione di una fedeltà sterile alla fonte equivale a consegnarsi al caos. La scelta di Alessandro Averone è quella di fare spiccare dal capolavoro di Beckett due prospettive: l'empatia umana, e il gioco. Nonostante i continui battibecchi, le minacce di abbandono e le incomprensioni, Didi - un magnifico e portentoso Marco Quaglia - e Gogo scoprono a poco a poco quello che hanno sempre saputo: nel disperato orizzonte senza senso dell'attesa di Godot, l'unica possibilità è lo starsi accanto. Anche nella chiave più paradossale: quell'idea del doppio suicidio, scartata solo perché impossibile da compiere per entrambi allo stesso tempo. Pur rimanendo sempre presente il dubbio dell'inganno, lo sguardo e i gesti di Didi e Gogo ci parlano forse non di speranza, ma almeno di resistenza - magari non sempre dignitosa - e perseveranza di fronte a tutto. Pare strano alla fine associare la parola eroismo a queste maschere, ma in quale altro modo si può chiamare questa parabola cupa e disillusa di attesa per chi non arriverà mai, in una terra desolata e ostile? Qui la mano della regia pare più sicura e lieve allo stesso tempo: nel guidare gli sguardi impauriti e smarriti di Didi e Gogo, in una sorta di sinfonia dell'empatia, che risulta il tratto più convincente di questo lavoro. L'aspetto giocoso e ironico è altrettanto evidenziato nel testo, e ben inquadrato nella messa in scena. Visto che l'esperienza teatrale è comunitaria, l'evidenza principale è la continua risposta del pubblico - sorta di coro - con risate più o meno amare lungo tutta la durata della rappresentazione. Il fatto che in alcuni disperati momenti certe risate suonino, all'orecchio di chi scrive, fuori luogo è forse il miglior commento a quanto si sta rappresentando in scena: il tentativo dell'umanità tutta di ritrovare il bandolo della matassa in un universo senza senso, aggrappandosi alla prima salvezza disponibile. L'ironia è per Beckett un'arma potente, forse l'unica forza intellettuale in grado di arginare la maledizione della conoscenza - quel peccato di conoscere il proprio destino che schiaccia tutti i personaggi a terra, come avviene letteralmente a metà del secondo atto. Meno convincenti appaiono gli interventi grotteschi legati alla presenza di Pozzo e Lucky, probabilmente perché sembra assente qualsiasi politicizzazione della vicenda da parte di Averone, svuotando un poco di significato il rapporto tra i due, e riducendolo quasi a cliché. Si ha quasi la sensazione di assistere a una brutta recitazione per scelta deliberata, in cui i toni esasperati di una buffoneria da fiera di paese non sono funzionali alla rappresentazione di un rapporto di potere distorto padrone/schiavo, bensì alla mera sgangherata comicità fine a se stessa. Alla fine dello spettacolo ci si alza sollevati per aver visto un classico memorabile, e per non vivere davvero nell'universo che descrive. Questa seconda certezza dura lo spazio di pochi secondi: è in quel momento che ci rendiamo conto tutti di aspettare Godot. Elementi di pregio: il coraggio di una lettura parziale (nel miglior senso) del capolavoro di Beckett; la grande prova di Marco Quaglia. Limiti: Qualche eccesso fine a se stesso nei toni grotteschi. Aspettando Godot Teatro Elfo Puccini Domenica 4 Febbraio 2018 di Samuel Beckett regia di Alessandro Averone con Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio Tintis, Francesco Tintis
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