Immagini del mondo o un mondo d'immagini | Biennale Teatro 2025 Parte prima
- Enrico Pastore
- 20 giu
- Tempo di lettura: 8 min
Per provare a raccontare della prima Biennale Teatro diretta da Willem Dafoe, ho pensato di chiedere consiglio e aiuto a un premio Nobel. Vi è un passo ne Il frutto del fuoco di Elias Canetti capace di sorreggere un pensiero meglio delle mie parole e da cui saccheggerò come un predone vichingo. D'altra parte lo stesso Canetti quasi lo suggerisce: «Forte si sente colui che trova le immagini di cui la sua esperienza ha bisogno». In questa prima parte del racconto dei giorni passati alla Biennale Teatro, che è non una recensione ma si sostanzia come un semplice tentativo di porsi delle domande, prenderemo il via da alcune immagini scaturite dalle opere.
Lo stesso Willem Dafoe sembra esser partito da questo principio per costruire la sua prima Biennale da direttore: mettere a confronto le icone di un passato teatrale con le più giovani generazioni. Barba, Grotowski – tramite l'erede Thomas Richards –, Castellucci, The Wooster Group, Schechner, Ostermeier da un lato e Thom Luz, Anthony Nikolchev, Mary e Evangelia Rantou, Princess Isatu Hassan Bangura e i ragazzi dell'Accademia Silvio D'Amico dall'altro (per brevità non elenchiamo tutti gli artisti coinvolti e di questo ci scuserete).
Il confronto tra generazioni è vitale, necessario addirittura. In fondo lo dicono anche i buddhisti zen: se incontri il Buddha, uccidilo!, e non per amore del delitto, ma perché anche il Buddha può diventare un legame impedente. In fondo il problema è proprio questo: è utile riproporre sempre gli stessi padri, che in più, in alcuni casi, sono anche gli stessi della generazione precedente? E i giovani hanno veramente bisogno di genitori e numi tutelari? Personalmente sarei per proporre un altro pantheon, magari inedito, magari femminile per vedere che hanno fatto le spesso dimenticate madri del teatro. Chissà che effetto farebbe, così a mo' di esempio, mettere in relazione Edith Craig e/o Asja Lacis con Milo Rau?
E qui torniamo a Canetti e alla sua riflessione sulle immagini per aiutarci a trovare un possibile bandolo della matassa: «Una via verso la realtà, infatti, passa attraverso le immagini […] Ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a far affiorare ciò che muta perennemente». Anthony Nikolchev con la compagnia The Useless Room in The (Un)doubled, parte da Il sosia di Dostoevskij per lanciarsi in una sfrenata disamina del tema dello sdoppiamento. Fin dalla seconda parte dell'Ottocento il tema del doppio e del sosia ha profondamente affascinato e turbato il mondo occidentale. Forse la scoperta operata dalla psicanalisi che la nostra mente è abitata da numerosi io conflittuali e non da un'anima unica e indivisa, aveva scatenato la ricerca spasmodica dei nostri doppi. E il teatro non fu da meno, se pensiamo ad Artaud.
Il personaggio di Goljadkin diventa paradigma di infiniti sdoppiamenti ed è proprio l'immagine del doppio a spingere verso una riflessione generale sul ruolo della narrazione, su come raccontare sia di fatto una gabbia entro cui proliferano le copie come i microbi in una piastra di Petri. Attore e personaggio, narratore e ascoltatore, realtà e finzioni, i multipli si moltiplicano con la stessa cancerosa velocità di Mr. Smith in Matrix. E anche il discorso comincia a prendere strade impreviste e così dal pensiero sulla copia in Platone si arriva alla vita latitante di Radovan Karadžić e i corpi e le voci degli attori esplorano le possibilità attraverso una rappresentazione che si va a costituire, di volta in volta, come fosse una disamina scientifica, una riunione di autocoscienza, un novello dialogo socratico, espandendo i confini del ragionamento e delle modalità fino a perdersi nelle vastità dell'universo. Lo scopo è disorientare, lo si afferma chiaramente in più luoghi, rendere incerto lo spettatore di fronte a ciò che ha visto fino a chiedersi cosa abbiano fatto quelle persone.

Evangelia e Mary Rantou in Mountains propongono l'immagine di un mondo materico e terroso entro cui il corpo si muove modellando nella creta il passato e il futuro. Qual è l'inizio, si domandano. La stessa questione che si poneva Thomas Mann nelle Storie di Giacobbe, primo volume di Giuseppe e i suoi fratelli. Quanto indietro riusciremo ad andare nello scostare le cortine del tempo? Nel battere la creta con un martello (in cui non si può non vedere un richiamo all'immagine iconica di 2001 Odissea nello spazio) vi è come una volontà di frantumare fino a raggiungere un'essenza. Le montagne nominate nel titolo sono quelle interiori, sono il nostro passato personale insieme a quello comune che chiamiamo “Storia”. Sono pesanti, ma sono malleabili, le possiamo modellare, tagliare, spostare, ma mai eliminare. Sono anche illusorie perché in grado di essere plasmate in nuove forme più leggere. In mezzo a loro, il corpo, vittima e carnefice, di questo perpetuo riconfigurare il territorio d'azione dell'umano.

Romeo Castellucci è un maestro nel creare immagini iconiche in grado di agire per anni come un trapano nel cervello. Dai suoi spettacoli, che ti piaccia oppure no, portiamo a casa delle immagini e questo ben prima I mangiatori di patate. Quel vento nell'oscurità che prelude all'apparizione dell'angelo nella notte è potente, così come quei corpi nelle sacche, forse moribondi, forse cadaveri, più probabilmente zombi, impediti a morire, non li puoi dimenticare, soprattutto quando ti trovi all'isola del lazzaretto, in quei capannoni vuoti che hanno ospitato teorie di morenti,; soprattutto oggi, nell'abitudine quotidiana al veder mucchi di cadaveri vittime delle stupide guerre degli uomini.
Per una chiave di lettura dell'opera di Castellucci potremmo ricorrere a una frase di D'Annunzio ne Il Fuoco, romanzo la cui protagonista è proprio Venezia. Il Vate scrive: « le immagini possono essere tiranniche […] e ti tengono lungamente sotto il giogo del loro potere. Altre si presentano chiuse in un velo come vergini o strettamente fasciate come i pargoli, e soltanto colui che sa lacerare quegli involucri può elevarle alla vita». La domanda da porsi oggi, forse, è se sia per forza necessario passare da questi due estremi: l'immagine che fora la retina o quella su cui ti devi lambiccare per trarne dei tesori da portare con te.

Le immagini di Milo Rau ne La veggente pongono altri tipi di domande, questioni sconcertanti sul nostro reale quotidiano e sull'atteggiamento e i sentimenti che proviamo di fronte alle icone del presente. Da una parte, in video, abbiamo Azad, abitante di Mosul a cui è stata tagliata una mano dall'ISIS, e dall'altra, sulla scena, Ursina Landi, attrice che impersona una fotografa di guerra ossessionata dalle immagini di violenza, le cui vicende sono un collage di esperienze e testimonianze reali. Come spesso avviene nelle opere di Milo Rau, per quanto la realtà sia l'oggetto di indagine, ci si trova in un mondo alla Philip Dick in cui è difficile distinguere cosa sia racconto e cosa, invece, reale. I piani di realtà si intersecano, ciò che è finto è più reale del reale, l'immagine diventa l'unico mezzo per comprendere ciò che accade nel mondo. Il teatro di Milo Rau, fin dal suo debutto sulla scena europea, è stato costruttore di copie del reale, i famosi reenactment, tramite i quali si giunge al reale attraverso il suo doppio. Ne Le tre stimmate di Palmer Eldrich di Philip K. Dick, i plastici della bambola Perky Pat servivano a sfuggire alla triste realtà della colonizzazione planetaria, attraverso un'esperienza allucinogena, possibile grazie a una droga ironicamente chiamata Can D (candy, ossia dolcetto). In Rau, invece, si opera all'inverso:, per capire ciò che è accade nella realtà, dobbiamo passare per ciò che è finzione perché nell’immedesimarmi con la maschera posso esperire il dramma (o la tragedia?) del mondo.

In quest'ultima opera sembra però che Milo Rau, come la fotografa di cui racconta la storia, sia sempre più affascinato dalle immagini di violenza. Questa fascinazione è dissimile da quella della Juliette di Sade o dal Ballard di Crash, i quali si eccitavano di fronte all'orrore, è piuttosto paragonabile alla malia subita dalla danza di un cobra, in quel misto di sinuosità ipnotica e estrema pericolosità che emana dal serpente. Questo esser catturati dalle immagini e dal racconto della violenza ci pone di fronte a seri dilemmi. Per porli, userò ancora le parole di Canetti, non per amore di citazione, ma per la chiarezza del quesito.
Cominciamo dal primo aspetto. Canetti dice: «Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell'esperienza, ci rivolgiamo a un'immagine e allora l'esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia». La violenza è oggetto di indagine fin dall'origine del teatro. La tragedia greca chiedeva conto della necessità della violenza, e proprio la tragedia attica è origine di molti lavori di Milo Rau (per La Veggente, Filottete e l'Orestea). L'immagine della violenza, soprattutto non pornograficamente mostrata o esibita, ma semplicemente evocata, produce nell'animo quel misto di empatia e necessario distacco che permette di riflettere e comprendere quanto più con il cuore che con il cervello. Guernica nel suo essere allusiva è più efficace di qualsiasi fotografia degli effetti dei bombardamenti su Dresda. Il racconto della vicenda di Azad ci colpisce proprio perché per la gran parte avviene in uno spazio desolato e desertico. L'incrocio in cui è stato amputato è mostrato in un video di cellulare interrotto prima del momento di violenza, e questo ci permette di essere maggiormente colpiti dalla sua funesta aurea, quando Ursina e Azad lo visitano nel tempo presente mostrandolo per il banale incrocio stradale che è. Da quella ferialità traspare tutta la banalità del male.
Canetti però dice anche: «Avevo la sensazione che basti guardare e capire qualcosa di riprovevole per diventare corresponsabile». Questa osservazione solleva uno sciame di questioni, la principale delle quali potrebbe essere: per parlare del reale, oggi, bisogna per forza passare attraverso l'orrore? Dobbiamo tutti trasformarci nel colonnello Kurtz di Apocalipse Now e scoperchiare il nostro cuore di tenebra? Essere a conoscenza della violenza, ci rende veramente corresponsabili di fronte a quanto avviene a Gaza o in Ucraina? È giusto applaudire e sentirsi grati per aver visto uno spettacolo di questo genere?

Per concludere, vorrei descrivere un'ultima immagine, quella dei ragazzi dell'Accademia Silvio D'Amico: Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin. In Evviva! Non ho fatto niente! per la regia di Thom Luz, e in Grrrrrr/Grrrrrrr per la direzione di Sebastian Nübling e Jackie Poloni, l'entusiasmo di questi ragazzi, la loro energia e ironia sono stati un toccasana. In una foresta di immagini violente, tetre, esistenzialiste, hanno portato il vento fresco dell'ironia. Quel concerto sbilenco e buffonesco come un numero di clown e che un poco ricordava le assurde esibizioni Fluxus di Maciunas, distruttore di strumenti, lascia intravedere la possibilità che oltre la tempesta possa apparire l'alba dalla dita rosate.
Spettacoli visti dal 10 al 13 giugno 2025.
Per i crediti completi e maggiori informazioni consultare i link sotto riportati
Evviva! Non ho fatto niente! Regia di Thom Luz con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
I mangiatori di patate di Romeo Castellucci – Societas
The (Undoubled) di Anthony Nikolchev – The Useless Room
The Mountains di Evangelia Rantou e Mary Rantou – Garage21
Grrrr/Grrrr di Sebastian Nübling e Jackie Poloni con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
Die Seherin/La Veggente di Milo Rau con Urlina Landi e Azad Hassan
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