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  • ScenaMadre

Riflessioni sul “decalogo” di Milo Rau



Per chi già non lo conoscesse, Milo Rau è un regista e drammaturgo svizzero noto in tutto il mondo. Gli spettacoli di Rau sono spesso scomodi o ti pongono comunque di fronte a questioni e domande difficili; non per niente lui stesso si autodefinisce sia artista sia attivista, e sostiene la necessità di abbattere la barriera tra questi due concetti.


Per mettere bene in chiaro la sua identità artistica Rau ha addirittura stilato un decalogo, il manifesto di Gent (dalla città del Belgio dove da qualche anno dirige un teatro).

Noi lo abbiamo letto e ci abbiamo ragionato secondo il nostro punto di vista e la nostra esperienza. Pur essendo ben consapevoli della nostra piccolezza nei confronti di un artista così affermato e talentuoso, condividiamo volentieri il frutto di questa nostra riflessione.

Non abbiamo risposte. Solo considerazioni. Appunti sparsi.


1. Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa. Vero. Il teatro e l'arte in generale perdono di senso se si limitano a rappresentare la realtà senza modificarla e ricrearla a loro volta, senza ambire a cambiare il mondo a cui si rivolgono. Questo vuol dire rappresentazione, ri-presentare, presentare nuovamente. Il concetto di "realtà" poi è molto diverso oggi rispetto a pochi anni fa, è innegabile. Qualunque messa in scena, anche la più tradizionale, "naturalistica", deve o dovrebbe confrontarsi con questa istanza: oggi, nel 2021, è ancora sufficiente riprodurre sulla scena la realtà tale e quale? E cosa significa "reale"? Viviamo in un mondo sempre più virtuale, dove la "rappresentazione" (in video, sui social) ha sempre più influenza nella vita concreta. Dunque anche il virtuale è reale, ma allo stesso tempo è un reale più liquido e veloce. E anche il teatro è reale, ma un reale più profondo. Più sincero. Più doloroso. Più.



2. Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico. Che il teatro sia un processo siamo d'accordissimo. Non pensiamo mai che uno spettacolo sia finito, anche quando ha già debuttato e sta girando per teatri e festival. È sempre migliorabile, modificabile, nessuna scena è totalmente intoccabile. Come compagnia, abbiamo questo brutto vizio di cambiare spesso qualche dettaglio: aggiungere due battute, cambiare una frase, ripensare un movimento. Brutto vizio perché costringe gli attori a non poter mai stare del tutto comodi su un terreno stabile, ma di dover invece essere sempre pronti a trovare un nuovo equilibrio su una pedana sempre in leggero movimento, come una piattaforma in mezzo al mare. Lo facciamo non perché siamo sadici (forse anche quello...), ma per due motivi principali: - Per mantenere vivo lo spettacolo. Dopo tante prove e tante repliche, il rischio è che lo spettacolo perda fluidità, freschezza. Che certe scene diventino meccaniche, perdano di energia. Cambiare sempre qualcosa è un modo per conservarne la vitalità. - Perché i nostri spettacoli crescono con noi. Così come creiamo uno spettacolo solo quando abbiamo qualcosa di nuovo da dire, allo stesso modo uno spettacolo, nell'arco degli anni in cui viene messo in scena, è permeabile alle esperienze che facciamo nel frattempo, come professionisti e come esseri umani. Sull'apertura totale al pubblico: da un lato siamo d'accordo, e infatti cerchiamo di condividere le varie fasi di ciò che facciamo anche quando uno spettacolo è ancora in fase embrionale. Presentiamo degli studi di fronte ad un pubblico (in genere non troppo ampio), o semplicemente invitiamo alle prove qualcuno di cui abbiamo fiducia. Dall'altro lato aprire al pubblico ogni fase della creazione può essere destabilizzante, almeno per noi. In alcuni momenti abbiamo anche bisogno di proteggere il lavoro, specie nelle fasi più delicate come quelle iniziali, dove nemmeno noi sappiamo con chiarezza cosa sarà lo spettacolo, cosa sarà in grado di fare e raccontare. C'è bisogno, a volte, di non esporlo ai quattro venti o a troppa luce, perché non si faccia male. Un po' come una piantina: prima la tieni al caldo nella serra, e solo quando è abbastanza forte per affrontare l'ambiente esterno la porti fuori. E se minaccia una gelata, la riporti dentro. Ricordiamo per esempio la presentazione al pubblico del secondo studio di TRE, dove davvero abbiamo rischiato. Ma è andata bene, anzi è servito per riflettere parecchio su come andare avanti con lo spettacolo. Su quell'esperienza abbiamo anche scritto un piccolo post sul nostro blog.


3. L’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle repliche, qualunque sia la loro funzione – e a nessun altro. Punto importantissimo. Ci è capitato in passato di farci influenzare troppo da indicazioni esterne. Ma forse è normale che accada quando sei agli inizi e devi ancora definire bene la tua identità artistica. Solo con l'esperienza impari quanto e chi ascoltare, capisci cosa realmente desideri per te stesso, cosa non è nelle tue corde, quali strade vuoi o non vuoi percorrere. Per esperienza, abbiamo capito che davvero non si può piacere a tutti, e che anche tra quelli che apprezzano il tuo lavoro ognuno avrà la sua idea: uno penserà che quella scena vada rivista, un altro che sia invece il punto più bello dello spettacolo e assolutamente non vada toccata, un altro ancora ne darà un'interpretazione a cui tu non avevi mai pensato. Serve lucidità per selezionare e fare tesoro delle osservazioni costruttive senza lasciarsi travolgere dalle mille opinioni diverse come una vela al vento. Restare saldi. Se uno spettacolo è nostro, nostre devono essere le decisioni e le idee. Ovvio che poi ne siamo responsabili: se uno spettacolo va alla grande ma anche se è un flop, è tutta responsabilità



4. L’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo – sia esso tratto da un libro, da un film o da un’opera teatrale – è disponibile all’inizio del progetto, non può costituire più del 20 per cento della durata finale della pièce.

Sicuramente questa è un'affermazione molto forte. Noi facciamo teatro contemporaneo, quindi non ci occupiamo di teatro "classico". Inoltre la drammaturgia è interna alla compagnia, ossia siamo noi stessi gli autori dei nostri testi, e finora abbiamo sempre creato storie originali, non ci è mai capitato di fare riscritture né di ispirarci a materiali già esistenti (ciò non significa che non lo faremo mai. Significa semplicemente che OGGI non fa parte del nostro linguaggio artistico). Questo vuol dire avercela a morte con i classici? NO. Spesso ci capita, parlando con persone poco avvezze al teatro, di incontrare stupore nei confronti di questa nostra scelta. Nell'immaginario di molti infatti, teatro è esclusivamente sinonimo di testo classico, Shakespeare, Goldoni ed Eschilo; la drammaturgia contemporanea non è conosciuta, l'ipotesi di poter essere autori dei propri spettacoli nemmeno contemplata. Servirebbe un discorso a parte sulle motivazioni storico-sociali che stanno dietro a questa opinione diffusa, e un altro discorso ancora sulla tendenza del mondo della scuola a proporre agli studenti solo spettacoli "classici", rafforzando quindi il pregiudizio e l'indifferenza nei confronti della drammaturgia contemporanea. In generale questo è ciò che rispondiamo a chi ci chiede che cosa abbiamo contro i classici: niente. Anzi, li abbiamo letti e studiati, ne riconosciamo il valore. Semplicemente è una scelta. Quella di parlare alla società di oggi, con parole di oggi.


5. Almeno un quarto del tempo di prova deve svolgersi al di fuori di uno spazio teatrale. ‘Teatrale’ è qualsiasi spazio all’interno del quale sia già stata provata o messa in scena una pièce. Quello delle prove è un argomento spinoso. Citiamo l'estratto di un post che Daniele Timpano (artista che stimiamo moltissimo) ha pubblicato su Facebook qualche mese fa: "la cosa più importante per una compagnia - giovane o di mezza età - è lo spazio per le prove, la produzione per pagarle, una ipotesi di perlomeno timida circuitazione prima di nuove residenze e nuove produzioni. Bello e utile il tutoring, il confronto, le aperture in corso d'opera ecc. (ed infatti anche noi diamo consigli quando ce li chiedono ed invitiamo autonomamente persone alle prove e parliamo il più possibile con tutti, durante la fase di creazione e durante la successiva vita dello spettacolo finito) ma uno spazio attrezzato per le prove, magari pagate, e poter fare esistere il proprio lavoro, produrlo anzitutto e soprattutto successivamente venderlo - che era difficile anche pre-covid, figuriamoci adesso - è molto più fondamentale di qualunque confronto con operatori/colleghi/pubblico che dicono la loro in corso d'opera". Per fortuna/purtroppo noi non disponiamo di uno spazio prove tutto nostro. Certo, possiamo contare sul sostegno de Gli Scarti (centro di produzione di La Spezia che ci supporta dal 2016) e sugli spazi che affittiamo per tenere i laboratori, ma le difficoltà sono sempre dietro l'angolo: difficoltà economiche, logistiche, di disponibilità degli spazi. Per questo motivo, ossia per ragioni di pura necessità, non è raro trovarsi a provare in spazi "alternativi", decisamente non teatrali, all'aperto come al chiuso. Da un lato purtroppo: vuol dire maggiori difficoltà tecniche, necessità di adattamento ed elasticità non indifferenti. Dall'altro lato, per fortuna: vuol dire (e questo forse intendeva Rau) portare il teatro fuori dal teatro, renderlo più accessibile e non sempre rintanato in un edificio teatrale come un fortino inespugnabile. Significa abitare gli spazi e abitarli attraverso l'arte, donare loro una dignità e un valore nuovi. In questo senso, sarebbe bello portare il teatro dappertutto, anche e soprattutto nei luoghi dove il teatro apparentemente non c'entra niente.


6. Almeno due lingue diverse devono essere parlate sul palco in ogni produzione. Nelle produzioni internazionali come quelle di Rau ha sicuramente un senso. Ci è capitato di vedere diversi spettacoli plurilingue: quando questo elemento è ben curato e integrato nella performance, davvero diventa un valore aggiunto, un ulteriore strumento drammaturgico a disposizione della regia (nota a latere: abbiamo, nel nostro background, anche studi linguistici. Dunque l'utilizzo di diverse lingue all'interno di uno stesso spettacolo è qualcosa che ci affascina parecchio, proprio perché amiamo la sottigliezza di significati che ogni lingua porta con sé). Se noi lo abbiamo mai fatto? No. Non ancora. Non del tutto. Abbiamo tradotto alcune nostre produzioni per l'infanzia in lingua francese, per metterle in scena nelle scuole della Provenza e del Principato di Monaco. Ma si trattava di adattare l'intero spettacolo in un'altra lingua, non di mischiare due lingue differenti. L'unico esperimento in questo senso lo abbiamo fatto un paio di anni fa, quando insieme ad alcune realtà del nostro territorio abbiamo vinto un bando di Regione Liguria e messo in scena uno spettacolo con parti in italiano e in lingua genovese. Parliamo di lingua e non di dialetto, perché molti studiosi di linguistica sono concordi nel considerare i dialetti come vere e proprie lingue a sé stanti, dotate di una propria autonomia non solo grammaticale e sintattica, ma anche di un proprio dizionario di immagini e concetti intraducibili. Seppur limitato, è stato un esperimento interessante, che ci ha dato la misura di quanto sia complesso e delicato maneggiare più lingue in una stessa messa in scena. Il rischio è quello di svilirle entrambe, di non dare senso alla loro presenza, di renderle un semplice virtuosismo.



7. Almeno due degli attori in scena non devono essere dei professionisti. Gli animali non contano, ma sono i benvenuti.

Quella di portare dei non professionisti in scena è una delle caratteristiche dei nostri spettacoli più conosciuti, La stanza dei giochi e TRE. In entrambi gli spettacoli abbiamo portato in scena dei ragazzini nel ruolo di loro stessi, scartando l'opzione più diffusa di far interpretare questi ruoli da attori adulti, debitamente truccati e vestiti per sembrare più giovani (per inciso, nel teatro per l'infanzia questa è praticamente la norma, e molte compagnie riescono a farlo comunque in maniera eccellente, senza perdere credibilità). Questa scelta un po' insolita ci ha portato parecchi apprezzamenti ma anche parecchie critiche da parte degli addetti ai lavori. Perché lo abbiamo fatto, allora? Perché era NECESSARIO e FUNZIONALE a ciò che volevamo raccontare in quei due spettacoli. Sapevamo che la stessa storia, raccontata con degli adulti invece che con dei bambini, non sarebbe stata la stessa storia. Ovviamente bisogna fare molta attenzione a portare in scena dei non professionisti. Non avendo una formazione professionale, non si può contare sulle loro competenze tecniche. È necessario dunque fare un lavoro diverso, che renda la loro freschezza e spontaneità strumenti ugualmente efficaci e forti in scena. È un processo lungo e delicato, e spesso ci siamo domandati se stessimo facendo la cosa giusta. La presenza di non professionisti in scena deve essere dettata da necessità e scelte precise, così come qualsiasi altra scelta drammaturgica: serve un senso e una motivazione, non può essere soltanto un capriccio.



8. Il volume totale del materiale di scena non deve superare i 20 metri cubi, cioè deve poter essere contenuto in un furgone che può essere guidato con una normale patente di guida. I nostri principali mezzi di trasporto di questi anni sono stati un pulmino da 9 posti (si guida con una normale patente), una Fiat Punto (è piccola, ma incastrando bene tutto e sfruttando il portapacchi sul tetto ci sta un sacco di roba) e una Multipla a metano (6 posti, basta una patente normalissima). Come spesso ci accade, l'essere sobri nei materiali di scena è stata sia una scelta sia una necessità. NECESSITÀ perché non avevamo (e non abbiamo...) grandi budget per mega scenografie, noleggio camion ecc. SCELTA per essere il più possibile agili e poter andare in scena ovunque, anche in spazi non teatrali. Ed effettivamente lo abbiamo visto, essere agili ci ha consentito di portare il teatro in luoghi insoliti, difficili da raggiungere o semplicemente scomodi, mettendo in scena spettacoli per quelle comunità (scolastiche, di quartiere, periferiche...) che in genere non vengono raggiunte dalle proposte artistiche. Il punto è cercare di essere leggeri ma allo stesso tempo curati: sobrio non è e non deve essere sinonimo di sciatto o trascurato; anche se si va in scena in un cortile o in un atrio scolastico, il tuo dovere è fare di tutto per regalare una vera esperienza di teatro; non ci sono spettatori di serie B nei confronti dei quali sei giustificato a risparmiarti. È una questione di rispetto nei confronti del pubblico. Alla fine quella dell'agilità è diventata un po' la nostra cifra: un teatro abbastanza essenziale, senza troppi orpelli (ciò detto, certe super scenografie sono veramente bellissime).


9. Almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali.

Wow. DI lavorare in posti sperduti privi di infrastrutture culturali sì, ci è capitato. Certo non erano zone di guerra, ma solo posti in mezzo al niente. Piccoli paesini a rischio spopolamento, lontani dai centri culturali. Condividiamo però il concetto al 100%: il teatro non è e non deve essere riservato ad una élite, o per chi ha già la fortuna di avere una cultura, un'istruzione. Il teatro deve essere per tutti. A maggior ragione per chi non ha i mezzi materiali o culturali. E "per tutti" intendiamo sia in senso materiale - andare in scena anche nelle zone periferiche e non solo nei grandi centri - sia in senso culturale: è necessario creare spettacoli che siano comprensibili anche senza avere una laurea in storia del teatro o senza essere operatori del settore. A volte ci capita di assistere a spettacoli che presentano quest'ultimo difetto, li guardiamo e pensiamo che se non facessimo questo lavoro da un po' di anni e non avessimo il percorso di studi che abbiamo, difficilmente capiremmo qualcosa. Gli spettacoli più belli, secondo noi, sono quelli che riescono nel difficilissimo compito di veicolare concetti molto profondi con immagini perfettamente semplici e comprensibili. Come diceva Charlie Chaplin, la semplicità non è per niente una cosa facile.


10. Ogni produzione dev’essere messa in scena almeno in dieci località, in almeno tre paesi. Nessuna produzione può essere rimossa dal repertorio di NTGent prima che questo numero sia stato raggiunto.


Eh. Diciamo che quest'ultimo punto esula un po' dal nostro controllo. La circuitazione degli spettacoli è un punto dolente per molte compagnie, specie per quelle piccole e indipendenti come la nostra che non possono permettersi (o faticano a trovare) una persona che si occupi soltanto della distribuzione. Conosciamo tantissime compagnie con spettacoli stupendi di cui si dice "sono bravi ma girano poco".

Ma è importante ragionare anche su un altro punto, ossia sul fatto che molto spesso si producono tantissimi spettacoli destinati a girare pochissimo, che ci sono più bandi destinati a nuove produzioni e nuovi progetti piuttosto che alla promozione delle produzioni già esistenti.

Che senso ha allora continuare a sfornare infornate di biscotti se gli scaffali sono già pieni di biscotti invenduti che ancora aspettano?

Perché ci sentiamo chiedere di continuo di produrre nuovi biscotti, quando la precedente infornata è stata appena assaggiata?

Noi - lo abbiamo detto poco sopra - non siamo particolarmente prolifici in fatto di spettacoli, e faticheremmo parecchio a concepire uno spettacolo in ottica usa e getta. Proprio perché abbiamo pochi spettacoli in repertorio, cerchiamo di farli girare il più possibile prima di mandarli in pensione. Con La stanza dei giochi siamo stati abbastanza fortunati, con TRE molto dipenderà ovviamente dall'andamento della pandemia. Ma è indubbio che il problema della distribuzione sia un nodo cruciale del teatro contemporaneo italiano, che andrebbe affrontato seriamente.



oca, oche, critica teatrale
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