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Feste d’altri tempi | Il teatro è la comunità

  • Immagine del redattore: Francesca Picci
    Francesca Picci
  • 7 set
  • Tempo di lettura: 11 min

Il primo maggio e il 25 aprile rientrano nel calendario delle feste comandate non religiose; per molti sono pilastri fondamentali, momenti dell’anno attesi e celebrati tra rituali collettivi e familiari, in un mix variabile di musica, spensieratezza, pensiero consapevole, ebbrezza. Feste di condivisione, identitarie e di appartenenza, feste di primavera e quindi, in un certo senso, di rinascita. Punti fermi dai quali ripartire sempre, ogni volta.

Il Teatro delle Ariette le ha celebrate al meglio, riscoprendone il senso profondo in accordo con la propria visione e la propria storia: ha aperto le porte di casa e ha invitato amici, conoscenti e  sconosciuti, per condividere mensa e teatro.

E allora cous cous per tutti, in tavolate e panche di legno, sotto il portico vista colline e campi di grano, per poi entrare nella piccola sala teatrale curata in ogni dettaglio (e non stupisce affatto sentire una spettatrice dire all’amica “belli vero i cuscini delle sedute? Un lavorone cucirli a mano!”) per lo spettacolo Del coraggio silenzioso di e con Marco Baliani il 25 aprile e per lo spettacolo Via del Popolo di e con Saverio La Ruina il primo maggio. 

Ed è proprio il primo maggio che l’oca, animale vorace e viaggiatore, spiega le ali e atterra in Valsalmoggia.

Il programma prevede:

Ore 13.00

Cous cous e vino (e chi vuole porta qualcosa, perché alle feste si fa così)

Ore 15.00

"Via del Popolo" di e con Saverio La Ruina

A seguire, una chiacchierata ochesca col Teatro delle Ariette.


Saverio La Ruina in una foto di Stefano Vaja
Saverio La Ruina in una foto di Stefano Vaja

Via del Popolo

Lo spettacolo è forte, calibrato, costruito con sapienza e capacità narrativa e Saverio La Ruina conduce il pubblico in un mondo lontano ben connotato nello spazio e nel tempo: è la Sicilia di quando lui era bambino, tra ricordi personali e memorie di paese. Per lo spettatore, a questa evasione magica del teatro che crea e apre mondi, si accompagna da subito un movimento di ritorno, un ritorno a sé, fatto di memorie condivise, comuni, familiari; lo spettacolo, autobiografico, finisce per parlare a tutti, come ci si aspetta accada quando si va in profondità. 

Via Del Popolo, vincitore del premio Ubu nel 2020 come miglior nuovo testo italiano, ha risuonato in accordo col senso della Festa del Lavoro che ne è stata occasione e scrigno. Saverio la Ruina col suo spettacolo ha affrontato temi significativi: la Comunità, organismo vivo che cresce, si trasforma, decade, l’Impegno politico e il Movimento, il Tempo lento fino all'immobilità propria delle età mitiche e il tempo accelerato e frenetico dell’oggi, il Lavoro, la Famiglia, l’Identità…

Usciti dalla piccola sala, ancora di ritorno dal proprio intimo viaggio tra memorie, legami, volti,  nostalgie, di nuovo la vista si apre su campi di grano e colline.



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Di pane, teatro e libertà | Chiacchierata sotto il portico con Stefano Pasquini

La conversazione sarà interrotta diverse volte dagli amici che salutano, ringraziano per la giornata e rimandano alla prossima occasione - difficile chiamarli solo spettatori...




OCA: Come nascono queste Feste d’altri tempi?

Stefano: Queste giornate vengono da lontano. La prima volta che le Ariette hanno voluto celebrare una data significativa per la comunità è stato più di vent’anni fa, un 27 gennaio. Era stata da poco istituita la Giornata della Memoria. Decidemmo di organizzare un evento che coinvolgesse tutto il paese di Bazzano. Abbiamo proposto un reading da Il dolore di Marguerite Duras, che veniva contemporaneamente trasmesso da una radio locale: abbiamo chiesto ai cittadini di sintonizzarsi e mettere le radio alle finestre in modo da sonorizzare tutto il paese. Avevamo anche coinvolto gli amici fornai di Bazzano e un’osteria aveva preparato il brodo (visto che era gennaio e faceva freddo) in modo da poter passare tutta la serata insieme. Sempre quel giorno alcuni amici erano sul trenino che da Vignola porta a Bologna, e leggevano, suonavano, parlavano: anche lì accadevano cose. 

Questo è stato il primo esperimento e da allora abbiamo sempre continuato a interessarci a queste date celebrative in cui la comunità si riconosce. 

Una cosa che ci ha aiutato in quegli anni, parlo dell’inizio degli anni 2000, è stato l’incontro con Giammaria Testa. Diventammo amici e venne da noi per il primo maggio a suonare canzoni sue o di altri; poi un 25 aprile abbiamo ospitato Laura Cleri con il suo spettacolo Un’eredità senza testamento, lavoro fatto insieme a una vecchia comandante partigiana. 

Complessivamente da allora abbiamo sempre continuato a lavorare su queste due date. Si andava in piazza il 25 aprile e dopo le celebrazioni ufficiali noi eravamo lì, in un angolo a preparare la polenta, così chi voleva poteva rimanere a chiacchierare davvero anche dopo le celebrazioni. 


OCA: Il vostro cucinare è anche un rallentare?  Far sedere le persone a una tavola per mangiare è anche proporre loro un tempo differente.

Stefano: Sì, noi siamo quasi sempre intorno al cibo nei nostri spettacoli e questo impone a noi attori officianti del rito un tempo di preparazione e un tempo di condivisione; è un limite interessante... Inoltre io non posso cucinare per duemila persone, tutto deve prendere una misura adatta al luogo che accoglierà lo spettacolo. Noi spesso parliamo di massa, di persona / massa. La comunità può essere un insieme di individui e il tempo e i limiti materiali ti spingono a fare delle comunità un po’ più piccole 


OCA: Chi è il pubblico del teatro delle Ariette? Prima, a pranzo, mi sono guardata intorno e mi sono chiesta chi fossero quelle persone con le quali stavo passando una giornata di festa. Con alcuni ci siamo presentati, erano addetti ai lavori, persone del paese e una coppia, marito e moglie, di Padova, venuti per passare la giornata qui da voi.

Stefano: È composito e variabile. Forse quello di Feste d’altri tempi è il pubblico del teatro delle Ariette, ma non solo. Per esempio è un po’ diverso quando di tratta di Territori da cucire, il percorso di laboratorio con gli amatori, con i quali poi realizziamo degli interventi nelle piazze. Le persone che vengono da fuori è perché dopo lo spettacolo sono rimasti loro il desiderio e la curiosità di venire a conoscerci. Rispetto alla città (la vicina Bologna, ndr) potremmo avere più contatti con i giovani, gli studenti, ma è difficile raggiungerci. C’è sempre tanta gente che viene e torna, li conosciamo e sono ormai sono anche  amici.


OCA: Quindi avete creato una comunità?

Stefano: Sì, intorno al teatro si è creata una comunità, provvisoria come lo sono tutte le comunità teatrali, però sì, credo che ci sia.


OCA: Voi vi muovete molto fuori dal teatro istituzionale, anche questo porterà ad avere un pubblico differente.

Stefano: Spesso siamo chiamati in contesti legati all’ambiente, all’agricoltura, al pane. In questi contesti non teatrali il rischio è che lo spettacolo venga penalizzato perché ha bisogno di una sua dimensione, di uno spazio e di un tempo dedicati. Noi riusciamo a tenerci fuori dall’eventismo, dal rischio di esserne fagocitati, perché non riusciamo a fare le cose grandi e questo limite ci consente di restare sulla buona strada. Veniamo anche chiamati in certi tentativi del teatro di uscire dal suo mondo chiuso e questa anche è un’operazione che ci piace molto. 


Un momento del pranzo, foto di Stefano Vaja
Un momento del pranzo, foto di Stefano Vaja

OCA: Questo limite del numero, vi porta a lasciar fuori possibili spettatori? In queste giornate molto partecipate di feste d’altri tempi, per esempio.

Stefano: Noi cominciammo ad attivarci qui intorno alla fine degli anni ‘90, precisamente nel ‘97, con il progetto Teatro nelle case. Invitavamo gli artisti e chiedevamo alle persone del posto se volevano mettere a disposizione le loro case; noi eravamo direttori organizzativi e artistici e le persone venivano a vedere gli spettacoli con lo stesso spirito con cui si va a vederli a teatro. Questo ci ha fatto acquisire molta esperienza nel meccanismo della prenotazione, della lista d’attesa e così via. In situazioni come quella di oggi potresti tranquillamente superare le 100 persone, ma questo noi non possiamo permettercelo perché non ci sono le strutture e forse neanche le forze, e anche se ti dispiace dire di no, devi - e speri - di farlo  con grazia cercando di suggerire che ci saranno altre occasioni. Uno può venire sempre, anche durante l’anno, a vedere cosa succede alle Ariette...


OCA: Il vostro approccio allo spettacolo è cambiato dal tempo del progetto Il teatro nelle case? 

Stefano: Io credo che ci muova lo stesso spirito di fondo. C’era un incontro e dopo lo spettacolo si rimaneva, si condivideva, la gente portava qualcosa, chi metteva una focaccia, chi una bottiglia di vino... Quell’occasione di ritrovo attorno a un fatto artistico era sancita e festeggiata da questo stare insieme. Per noi era il fulcro dell'evento spettacolare. Troppo spesso i teatri ti sbattono fuori appena finisce lo spettacolo e così facendo l'opera rischia di essere solo un oggetto di consumo. Il teatro è anche una casa da abitare, dove discutere e parlare, non solo degli spettacoli. Per noi tutto questo è fondamentale. Questo luogo (il teatro, ndr) lo abbiamo costruito nel 2000, nei primi anni Novanta non c’era nulla, nemmeno la casa: ad accogliere gli spettacoli che invitavamo, erano solo i campi e le abitazioni messe a disposizione dagli amici.


OCA: Tu e Paola siete originari di qui, del territorio?

Stefano: No, Paola è nata ad Anzola, a metà strada tra qui e Bologna, io sono nato a Bologna. Mio nonno comprò questo podere nel ‘60; lui veniva da Pavullo, quindi dalla montagna, e quando andò in pensione ebbe il desiderio di avere un po’ di terra, di tornare a fare quello che faceva da giovane. Comprò qui in questa valle quando erano andati tutti via, spinti dalla povertà verso la fabbrica, inurbati. Quando io e Paola dopo una crisi abbiamo abbandonato il teatro, siamo venuti ad abitare qui. Era il 1989 e abbiamo iniziato a fare i contadini con una piccola attività di agriturismo e per dieci anni quello è stato il nostro lavoro. Poi il teatro è riemerso. Abbiamo sentito il desiderio di riprendere quel linguaggio per raccontare questa vita nuova che avevamo scoperto, e siccome avevamo trovato un altro senso nella nostra esistenza anche il teatro, che prima si era inaridito, aveva ora trovato una sorgente; abbiamo quindi cominciato a lavorare sull’autobiografia, a lavorare con la gente del posto e a non pensare più ai palcoscenici, alle platea, ai teatri come luoghi di separazione, ma come dei luoghi di condivisione.


OCA: Rispetto a un’esperienza come quella del teatro povero di Monticchiello, come si colloca il vostro lavoro con le persone del posto e con le loro storie?

Stefano: Il Teatro Povero di Monticchiello nasce subito come un teatro fatto dalla comunità. Qui siamo io e Paola che attraverso il nostro desiderio aggreghiamo un piccolo gruppo di persone e chiediamo alla comunità di accogliere il teatro. Quindi è nato più in una dimensione piccola, familiare per poi estendersi in un laboratorio permanente fino ad aprirsi a una cerchia più grande di persone.


OCA: In questi giorni all’interno delle Feste di altri tempi avete ospitato due premi Ubu, Marco Baliani e Saverio La Ruina, con due proposte interessanti e significative. Vi siete sentiti negli anni di avere anche in un qualche modo “educato” il pubblico? 

Stefano: Io credo che ci siamo educati a vicenda. Il rischio di chi ama un linguaggio è di perdersi in questo amore e quindi diventare anche un po’ autoreferenziale. Dallo spettatore “puro” impari a capire che c’è qualcosa che va oltre il tuo amore per il linguaggio: qualcosa deve parlare, deve raccontare, deve muovere. Noi portiamo al pubblico gli spettacoli che ci toccano, proponiamo quello che mi coinvolge. 


OCA: Quindi è questa la direzione artistica del Teatro delle Ariette.

Stefano: Secondo me è un patto di onestà col pubblico che viene a vedere lo spettacolo: io onestamente ti porto e ti do il meglio di quello che posso offrirti e tu, altrettanto onestamente, provi a fare lo sforzo di comprendere lo spirito del nostro dono. L’obiettivo è questo: riuscire a dare la forma del dialogo al rapporto che c’è tra organizzatore, attori, spettatore.


OCA: Tutti allo stesso tavolo, come oggi...

Stefano: Dovrebbe funzionare proprio così, deve funzionare proprio così


OCA: Come si colloca in questo vostro lavoro che è molto sul territorio, il rapporto con la Francia? Ho visto che siete spesso in tournée Oltralpe.

Stefano: La Francia un po’ è arrivata, un po’ l’abbiamo cercata.Nel 2000 abbiamo debuttato a Volterra con il Teatro da mangiare?, lo spettacolo che facciamo intorno a un tavolo preparando le tagliatelle mentre raccontiamo un po’ di noi, della nostra vita. È  lo spettacolo che ci ha fatto conoscere, che ci ha fatto tornare ad essere professionisti. Una giornalista di Le Monde, venuta per il lavoro di Armando Punzo, su consiglio di Armando e Cinzia, venne a vedere anche il nostro spettacolo. Ne rimase incantata. Noi siamo sempre stati affascinati dalla Francia e dalla sua cultura e da quel momento siamo andati a cercare qualcuno che potesse essere interessato al nostro lavoro. Si è creato un legame quasi di scoperta reciproca con un piccolo festival sulle montagne di Grenoble, il Festival L’Arpenteur, che ha cominciato a invitarci, da lì abbiamo avuto contatti con La Villette di Parigi, e abbiamo cominciato a tradurre i nostri spettacoli; poi da lì a Lille, capitale europea della cultura nel 2004... i nostri spettacoli incontravano moltissimo i direttori dei teatri e gli spettatori francesi; abbiamo cominciato a lavorare tanto in particolare con la Scène Nationale Le Channel di Calais, dove dal 2005 abbiamo fatto tutti i nostri spettacoli e tantissimi progetti.

C’è un amore per la cultura francese. Abbiamo fatto anche uno spettacolo che si intitola Io, il cous-cous e Albert Camus, oltre al forte legame di Paola con Marguerite Duras. 

Insomma, siamo diventati amici con moltissima gente, abbiamo girato tantissimo in Francia e continuiamo a farlo. Anche in Spagna abbiamo lavorato molto, e sempre abbiamo tradotto i nostri spettacoli.


OCA: Quindi recitate nella lingua del paese che vi ospita.

Stefano: Non è possibile altrimenti, sei intorno a un tavolo, non puoi mettere barriere. C’è questa dimensione che io chiamo “del tavolo”: in fondo i nostri spettacoli sono sempre come un invito a casa nostra, come se le persone venissero nella nostra cucina. Questo supera tutte le frontiere e in alcuni casi mette in moto anche qualcosa di più, è un qualcosa di esotico, ma è anche un riconoscimento... Il fatto di parlare la loro lingua è importante, la sentono ma in un modo nuovo, con il tuo accento, con tutto quello che porti. Sì, è qualcosa che supera le barriere delle frontiere nazionali.


OCA: Parli la loro lingua, ma racconti la tua storia e offri la tua cultura. Le tagliatelle in fondo sono quello...

Stefano: Esatto, senza bisogno di tradurre niente, tu porti il tuo cibo.


OCA: Quella che offrite è un’esperienza, tutti i sensi sono coinvolti.

Stefano: Sì ed è un’esperienza anche per noi. C’è una certa reciprocità.  Noi siamo andati a casa di tantissime persone, sono nate anche delle amicizie da questi incontri; negli spettatori nasce il desiderio di raccontarci la loro storia proprio come abbiamo raccontato la nostra.


OCA: Non è come il baratto, è qualcosa di ancora più spontaneo

Stefano: Sì, è qualcosa che riguarda quel sentimento profondo di ospitalità che abbiamo, che non è uno scambio di qualcosa, ma è proprio una condivisione, è il tuo accogliermi che fa nascere in me il desiderio di accoglierti, è una cosa reciproca, non obbligatoria. Ricordo una volta a Valencia… debuttavamo con lo spettacolo all’interno del festival ed era anche la prima volta che lo facevamo in Spagna. I nostri spettacoli hanno un’ultima parte che non è preparata, si resta nel luogo, attorno al tavolo, e si parla. Puoi parlare della ricetta che hai cucinato come del testo e io, in quel momento di scambio reciproco, chiesi alla tavolata dove dovevamo andare per mangiare la migliore paella valenciana. Una signora si è alzata e ha detto “bè, a casa mia!”. E così è stato... Sono quelle cose che non si dimenticano.


OCA: Quindi, diciamolo, ritorna anche una sacralità.

Stefano: Sì, io la sento molto forte. Ho passato tutta la mia infanzia sempre con mia mamma e mia nonna, non sono andato all’asilo; loro erano tutte e due casalinghe e io ero sempre in cucina con loro. La nostra famiglia era molto numerosa e spesso arrivavano anche i parenti in visita. La cucina era luogo di laboratorio e di consumo, lì succedevano le cose, si raccontavano un sacco storie, i parenti raccontavano quello è nato, quello è morto, quello ha fatto, quello ha brigato.. In più essendo la parte femminile della mia famiglia molto religiosa, da piccolo andavo tutte le domeniche a messa e a messa era uguale: un gruppo di gente, un tavolo, delle storie, la musica, il canto... era uno spettacolo, era teatro. Quindi questo sentimento di sacralità laica, questo incontro bello tra esseri umani che condividono il cibo e le storie mi ha sempre colpito e emozionato molto. Lo abbiamo trovato e al tempo stesso continuiamo a cercarlo. Credo che anche Paola cerchi prima di tutto questo incontro. In più lei ha questa grande dote come attrice di riuscire a costruire un filo di empatia con gli spettatori per cui tutto diventa più facile e non è scontato, si parte da una sincerità profonda e da una grande capacità di ascoltare...


Fu così che l’oca riprese il volo rifocillata nel corpo e nello spirito, salutando la Valsalmoggia con un profondo senso di gratitudine.


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