Per uno spettacolo che invita a riflettere sull'idea di confine, identità, pluralità, L'Oca propone due voci diverse - e due recensioni diverse.
Un J'accuse contemporaneo
Marta Cristofanini
Una donna vestita di bianco, tuta isolante e mascherina alla bocca, chiede in un tedesco aggressivo biglietto e documento d'identità: così noi spettatori dello spettacolo Intime Fremde veniamo “accolti” in un teatro-fortezza, dove il volto famigliare del Teatro della Tosse viene stravolto per diventare un asettico e freddo non luogo (aeroporto, dogana, confine) dove lo stato d'animo tipicamente ansioso del viaggiatore e potenziale criminale viene bruscamente risvegliato. La perquisizione e lo smistamento sul palco della sala Trionfo amplifica una sensazione di disagio nei confronti delle voci perentorie e degli ordini sprezzanti, a cui obbediamo trovandoci così a sedere lontano dai nostri eventuali accompagnatori.
Questa è una delle tante azioni teatrali e politiche disorientanti a cui il non-spettacolo ci sottopone, sfidandoci ad abbandonare il confortevole ruolo di spettatori-divani e suggestionandoci in modo da rivestire i panni di quegli altri individui, troppo spesso ignari e silenziosi, con cui impersoniamo la vita vera, la vita là fuori: i cittadini. I civili.
Utilizzando principi cari alla compagnia di provenienza della regista Chiara Elisa Rossini – attrice del Teatro del Lemming – le tre testimoni, generose e intense nella loro onesta trasmissione di energia e consapevolezza, cercano un contatto frontale, diretto, in un continuo tentativo insistentemente fisico di scavalcare l'etichettatura “Teatro”, quasi che il gioco della finzione possa essere d'intralcio alla comunicazione di messaggi ben più importanti.
Con l'irruenza e l'urgenza di messaggere tragiche – penso ai corridori delle tragedie greche, il cui arrivo con la consegna di un messaggio era decisivo all'interno della vicenda narrata – è un ritratto impressionista, talvolta troppo divagante e frazionato, quello che ci viene proposto, a sangue freddo seppur con un'intenzione di scuotimento emotivo ben presente, come dimostrano diverse soluzioni registiche: il corpo integralmente nudo delle attrici mentre categorizzano il pubblico secondo razza e supposto orientamento sessuale, sull'onda di una rage populista ben riconoscibile; l'invito a guardare negli occhi la persona (sconosciuta) seduta accanto a noi, e di prenderle la mano, vedendo ciò che il gesto scatena in noi; la distribuzione di biglietti su cui scrivere cosa sia “casa”.
Indubbiamente le tematiche di riflessione proposte sono di un'attualità che ha – in modo sconcertante – dell'antico: morti e volti senza nome vengono elencati alla fine dello spettacolo, come un de profundis rivolto a un mondo civile che ha perso il controllo sul significato di confine e di chi lo attraversa, sprovvisto di quel coraggio in grado di umanizzare e reintegrare nella propria storia questi cadaveri estranei, disconosciuti, ribelli. In fondo, i confini, le gabbie, esistono sempre altrove; e l'altrove è troppo distante per occuparsene o per credere che sia reale. Anche se, sembrano suggerire le testimoni, quella distanza inconcepibile può annidarsi in seno a situazioni ritenute “occidentalmente” normali: come le invisibili prigioni che circondano di insicurezza le donne (troppo magre, troppo grasse, basse, alte, giovani, vecchie, insomma inaccettabili) e le quotidiane violenze a cui ci votiamo ingenuamente (la scena in cui la più piccola delle attrici viene imboccata con il cibo assume l'intensità di una tortura che prescinde dai ricordi d'infanzia). Al momento di uscire, le interpreti abbandonano il palco, senza accogliere un applauso che nel contesto perde il proprio significato.
Pensato come un progetto internazionale a cavallo tra l'Italia e la Germania, lo spettacolo è sicuramente dalla parte di chi ha qualcosa da raccontare seppur ad un livello ancora laboratoriale e frammentato, modalità che ostacola l'impeto e la fierezza del contatto, non aiutando il raggiungimento di una climax emotiva soddisfacente e lasciando l'impressione, a volte, di qualche déjà-vu.
Punti di forza: onestà e forza delle interpreti, argomento toccante trattato in modo coraggioso
Limiti: messa in scena frammentaria con elementi non sempre originali.
Quando il vicino è uno sconosciuto e lo straniero siamo noi
Marina Giardina
Non è certo un caldo benvenuto quello che viene dato all’ingresso dalla compagnia Welcome Project per assistere a Intime Fremde. Nessun addetto dal volto gentile ci farà accomodare in sala.
La maschera del teatro qui porta una maschera che le protegge la bocca e una tuta che le protegge il corpo e ti grida in faccia Tickets and Passaports please!, divide il pubblico in tre parti e lo fa accomodare dove vuole: nessuna libertà. Da quel momento in poi, dopo la perquisizione su ciò che portiamo e l’identificazione di chi siamo attraverso il proprio documento, il benvenuto ha un sapore inquietante e straniante, unheimlich, quel luogo che non è casa, che non è patria (Heimat), quel luogo in cui ti stai perdendo.
Una vicinanza a distanza data dallo sguardo delle tre attrici che quasi mai smetterà di essere sospettoso verso di noi, pieno di disprezzo, spesso accompagnato da una lingua non sempre tradotta in italiano per farci immergere immediatamente in uno dei tanti luoghi o non luoghi in cui la propria vita di straniero potrebbe essere per un attimo rimasta sospesa a decisioni di cui nemmeno si comprendevano le parole, urlando con rabbia verità di abusi e sottili torture nate da pregiudizi di razza e da superiorità di potenza, fisica, culturale, sessuale.
Ma allora, se la possibilità di viaggiare pare avere abbattuto molte frontiere e se “la cittadinanza è uno status concesso solo a chi è membro a pieno titolo di una comunità” come indicava Thomas Marshall, quali sono quindi questi requisiti necessari? Cosa mangiamo, chi amiamo, quanto siamo alti? O saremo sempre quegli Scheiss Ausländer, che hanno osato venire a casa di altri?
Vincitore del premio Crash Test, lo spettacolo prodotto in collaborazione con il Teatro del Lemming e Tatwerk Performative Forschung di Berlino, Intime Fremde è un spettacolo fatto di sovrapposizioni di quadri - forse qualcuno in meno avrebbe centrato maggiormente il punto - profondamente reale che vuole sfregare sulle nostre coscienze e sulla possibilità di immedesimazione, perché “Je est un autre“ e tutte le individualità che le tre attrici portano in scena siamo noi.
Che poi uno spettacolo non vuole forse nemmeno esserlo Intime Fremde; lo capiremo alla fine quando ci verrà tolta anche la libertà dell’applauso. Non c’è conclusione né possibilità di compimento o di redenzione finale.
Rimaniamo così, lasciati a noi stessi, a guardare il vicino che come noi non capisce. Ma che forse è, ora, meno sconosciuto.
Durata: 60 minuti.
Interpreti: Aurora Kellermann, Babette Woudenberg, Ela Cosen
Regia: Chiara Elisa Rossinidi, Welcome Project – The foreigner’s Theatre
Produzione: Teatro del Lemming in collaborazione con Tatwerk Performative Forschung_Berlino.
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