Ogni tanto capita, per chi vive a Genova, che per vedere che cosa succeda nella scena contemporanea si debba andare via da Genova.
L'O.C.A. si fa vedere, dunque, nelle platee del Teatro Astra di Torino e di Lavanderia a Vapore, a Collegno, per le ultime due serate del Festival delle Colline Torinesi, per vedere i catalani El Conde de Torrefiel di Tanya Beleyer e Pablo Gisbert e Motus di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò in collaborazione con gli allievi de La Manufacture – Haute école des arts de la scène, prestigiosa scuola d'arte scenica nella Svizzera francofona.
I - La Plaza di El Conde de Torrefiel
La trama di La Plaza, se così la si può chiamare, è un lento e accidentato rientro a casa di un protagonista, che non vediamo né sentiamo mai, ma di cui leggiamo i pensieri proiettati sulle algide pareti del set minimalista disegnato dalla Compagnia con la collaborazione di Blanca Aňon: un ambiente neutro, freddo e versatile, in cui la città evocata prende forma tramite le presenze/assenze che l'attraversano.
Il nostro narratore silenzioso, nella finzione della compagnia catalana, rincasa dalla visione di un immaginifico spettacolo teatrale, durato 365 giorni e messo in scena, in contemporanea, in più città nel mondo. L'evento, astratto, concettuale, estenuante, ha creato nel suo pubblico - e nel nostro protagonista, naturalmente - una sorta di dipendenza, di attesa spasmodica dell'atto conclusivo, anche se di fatto consisteva semplicemente nell'installazione di una scena priva di attori, immobile e scarsamente illuminata, stracolma di fiori mortuari e lucine. Così infatti si apre La Plaza per il pubblico del Teatro Astra, con l'atto finale di questo immaginario spettacolo.
Il solito effetto di "teatro nel teatro", dunque? No, molto di più.
L'opera che Pablo Gisbert e Tanya Beyleier fingono di installare per innescare il motore della loro ricerca autentica, e che analizzeremo tra poco, è una scatola magica, un'anticamera necessaria a spostare la nostra concentrazione sul cuore de La Plaza - ovvero il mondo che il protagonista affronterà fuori dal teatro -, lontana dalle speculazioni di un artificio sperimentale.
L'installazione di fiori e lucine dunque faceva coincidere la potenza del proprio senso con il suo semplice esistere, tutto il giorno, tutti i giorni, per chiunque: la costruzione di un ostinato silenzio, l'evocazione spontanea di solitudine e complicità negli spettatori che per un intero anno ne hanno cercato di decifrare il mistero, fino ad accettarne la perfezione del vuoto, fuori e dentro di sé. L'illusione del quotidiano.
Il tanto atteso atto conclusivo di questa utopia muta e immobile culmina, con grande stupore del suo pubblico, con un testo, un lungo, cinico, vitale poema di Pablo Gisbert.
Il testo viene proiettato, leggiamo ogni parola che campeggia sull'installazione, accompagnate da rumori di interferenze elettroniche. La parola poi si esaurisce, insieme alla sua utopia. Il sipario si chiude. L'evento è concluso. Ma continuerà, nella testa del protagonista, sempre invisibile ai nostri occhi, per tutta la durata di ciò che segue: il sipario, logoro attrezzo scenico, evidenza dell'artificio, riaprirà infatti poco dopo, per proiettare il protagonista e noi tutti nel mondo fuori dalla sala. Con la verità irraggiungibile del quotidiano, la ritualità dei gesti, i saluti, le formalità, mendicanti, soldati, donne con velo e sacchi della spesa, metonimie di metropoli, le camminate distratte, le presenze, le assenze, la morte ad ogni angolo come semplice possibilità, mai tragica, di uguale peso rispetto alla vita che la genera.
La nostra identificazione con gli occhi del protagonista è ambigua, ne leggiamo i pensieri, ascoltiamo la musica che sta sentendo con le sue cuffie e che si incastra in modo mutevole e casuale (ma solo apparentemente, come nella vita appunto) con le immagini della realtà che si compongono davanti ai nostri occhi, così com'è, lenta, ordinaria, dettagliata e superficiale insieme, insignificante e potente.
Ma appunto è un'identificazione ambigua, perché non siamo mai certi che ciò che vediamo sia quello che vede anche lui, anzi abbiamo spesso la sensazione di notare qualcosa di più, di soffermarci sui dettagli del mondo e di lasciare che il ritmo naturale della nostra osservazione in qualche modo risuoni nei ricordi, nelle riflessioni, nella narrazione che leggiamo. Tutto è all'insegna del non-drammatico in barba a ogni manuale di scrittura teatrale, ma mantiene paradossalmente, sia pure con l'opacità di un sogno, l'unità di spazio e tempo, come voleva Aristotele. L'azione in La Plaza diventa il desiderio del pubblico di impossessarsi di ciò che (non) accade in scena, qualunque cosa sia. La nostra fame tiene in vita il teatro.
E anche volendo restare al di fuori della sua antropologia teatrale e visto invece come opera in sé, La Plaza appare come puro pensiero libero, inno all'osservazione, evocazione della vita come "luogo", in cui gli esseri umani, le loro relazioni, gli oggetti, gli animali sono indistinguibili tra loro: sono solo "paesaggio" – lo dice Gisbert nel poema.
La parola - letteraria però, perché scritta, non teatrale e declamata - è l'unica traccia di umanità.
Esperienza teatrale profonda, commovente, che trova i suoi riferimenti solo nella letteratura e nel cinema - Bolaño è citato apertamente, ma furoreggiano intimamente anche la scrittura di Carver, De Lillo; tra i lungometraggi accosto La Plaza per visionarietà e onestà intellettuale a un film acido come Synecdoche, New York di Charlie Kaufman - l'opera reinterpreta in modo autentico il termine "contemporaneo", nascondendo sapientemente rigore narrativo e regia chirurgica in una sinestesia di visioni, ricordi, suoni, maschere, in assenza di voci - i pensieri si possono solo leggere - e di corpi - tutti gli attori hanno la pelle completamente nascosta da tessuto sintetico, come maschere spettrali: fa eccezione solo la nudità totale di una donna, morta, abbandonata sul lettino, nel suo ambiguo paradosso vitale, climax della drammaturgia complessiva dello spettacolo.
Tutto è nello stesso momento, immerso nel tempo dilatato unicamente da ciò che ci anima, ci colpisce, ci interessa.
Uscito dal Teatro Astra, per molti giorni mi è capitato di osservare il mondo con gli occhi di El Conde de Terrafiel, muto, rituale, emozionante, curiosamente intriso dei miei pensieri.
Merito di La Plaza, uno di quei rarissimi casi di teatro che continua dopo che è finito il teatro, come piacerebbe a Claudio Morganti, un'azione poetica e politica che si riversa inesorabilmente nel mondo.
Un mondo di strade bloccate, deviazioni, periferie, ubriachi, passanti anonimi capaci di inaudite crudeltà, sogni ben custoditi nei silenzi di anime solitarie, finestre attraverso le quali si intravedono misteri, vuoti incolmabili, domande che deflagrano all'improvviso e dopo un attimo non lasciano neppure traccia della curiosità che le ha animate, un mondo di sconosciuti, in fondo, che contemporaneamente – ed è questa la gioia filosofica che porta con sé la riflessione sul "contemporaneo" che La Plaza evoca – condivide con noi la cellula della sua esistenza.
LA PLAZA
ideazione El Conde de Torrefiel in collaborazione con i performers
drammaturgia e regia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
testo Pablo Gisbert
disegno luci Ana Rovira
set design El Conde de Torrefiel e Bianca Añon
costumi a cura dei performers e di Bianca Añon
sound design Adolfo Garcia
produzione esecutiva Kunstenfestivaldesarts, Brussels
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