Sconcerto. È questa la sensazione che si prova leggendo La vegetariana di Han Kang, recente premio Nobel per la letteratura. La vicenda in tre atti di Yeong-hye, donna ordinaria senza niente di speciale, come tiene a dirci il marito, ci pone di fronte a un enigma inquietante quanto quello posto da Kafka davanti alla porta della legge: si può sfuggire alla violenza senza essere violenti? Violenza non solo contro gli altri, ma anche verso se stessi.

La scelta di Yeong-hye di diventare vegetariana non è politica ma ontologica, riguarda lo stato dell'essere nella sua totalità. Disorientanti sono le conseguenze, tali da condurre, attraverso un divenir-vegetale, alla sparizione totale. Non stiamo parlando di suicidio, ma di annichilimento. La contestazione della violenza dell'essere non può venir manifestata che da un assunto estremo e, forse, altrettanto violento.
Yeong-hye si lascia morire di fame cercando di divenire albero. Non si tratta più quindi di non mangiare carne, ma di trasformarsi in un organismo non violento che assorbe le sostanze nutritive dalla terra. Inutile dire che tale metamorfosi è destinata al fallimento. Non c'è via d'uscita alla violenza. Ma la disfatta del progetto contamina e contagia la vita di coloro che convivono con Yeong-hye: l'ordinario marito, incapace di capire l'enormità e la ferocia della scelta di quella moglie che non gli aveva mai dato problemi; il padre-padrone, violento e abusante nell'infanzia come nel presente; il cognato attratto da una voglia a forma di petalo, ma incapace di gestire le conseguenze delle sue pulsioni; la sorella che non può né vuole comprendere e sceglie di rinchiudere Yeong-hye in manicomio, non riuscendo però a eludere il disagio verso qualcosa di inafferrabile.
Il più importante successo di Daria Deflorian nel processo di trasformazione del testo di Han Kang in teatro consiste nell'aver mantenuto intatta la sensazione di sconcerto che trasuda dalla pagina scritta. Si è scelto di lavorare come se fosse una sceneggiatura cinematografica. Interno-giorno. Interno-notte. Un appartamento con muri grigi, un bagno e una cucina che divengono ospedale, studio di posa, etc. Anche le luci di Giulia Pastore sono cinematografiche: quei tagli che inondano la stanza da bagno da un esterno inesistente; quel riflesso della televisione (che non vediamo) sul volto del marito sdraiato sul materasso; l'ombra delle foglie scosse dal vento nella notte sui muri della stanza.

Neppure l'azione sfugge al cinematografico, ma conserva tutta la semplicità evocativa del teatro. Due scene di esempio. Prima. Materasso in verticale contro il muro di fondo, gli attori contro come se fossero sdraiati a restituire l'impressione di una visione dall'alto. Seconda. Il corpo nudo dell'attrice investito dalla luce proiettata dalla lavagna luminosa. L'attore dipinge sbuffi di colore sul vetro. La proiezione trasforma il corpo in fiore colorato.
I corpi si muovono in scena con naturalezza, non hanno niente di affettato. Le azioni semplici, quotidiane. Lavare i denti, rassettare, sfogliare un giornale. Non si mostra, si fa. La rocciosa concretezza poetica della realtà. Tutto quell'agire in scena ha la forza delle imagines agentes: emblemi capaci di imprimersi nell'occhio dell'osservatore e di attivarsi anche a distanza di tempo. Tarli nell'anima e nella memoria. Come il Pharmakon, sono cura e veleno.
Questa recitazione nella sua apparente normalità è pertanto in grado di contagiare lo sguardo. Guardare il più delle volte, oltre a non essere un atto innocente, è anche pericoloso. Gli attori ci parlano con disinvolta schiettezza. Come se intrattenessimo una conversazione sulla panchina aspettando l'autobus. Questo non deve far pensare a qualcosa di dimesso o ordinario. È grande arte quella capace di far sparire l'artificio e di accogliere con la stessa ipnotica grazia dei tentacoli di una medusa.
Affascinante è anche la compresenza dell'attore e del personaggio sulla scena. A volte sono sovrapposti, a volte sono affiancati come un'immagine sfocata, a volte nient'altro che riflessi d'ombra e di luce su uno specchio invisibile. Quotidiano e extra-ordinario convivono nella carne dell'attore.
La vegetariana non è un testo oracolare. Non dà risposte, neanche di quelle ambigue. Non ci sono ricette per sfuggire allo sconcerto. È un mistero e come tale va contemplato. È questa la principale fonte di disagio. Vi è solo un'ambigua e potente complessità. Per quanto si provi a risolvere l'enigma, non si può fare a meno di rammentare le parole di Roberto Bolaño ne I detective selvaggi: «Ci muovemmo... Ci muovemmo... Facemmo tutto quello che potevamo... Ma non ne uscì nulla di buono»

visto al Teatro Astra di Torino il 2 febbraio 2025
scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
consulenza alla drammaturgia Eric Vautrin
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista Blu Silla
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