Residenze Digitali è un progetto nato nel 2020 da un’idea del Centro di Residenza della Toscana (Armunia, Capo Trave/Kilowatt), che nel corso del tempo ha raccolto moltissimi sostenitori e partner, tra cui: Cooperativa Anghiari Dance Hub, Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, ATCL Associazione Teatrale dei Comuni del Lazio per Spazio Rossellini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna (L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, La Corte Ospitale di Rubiera), Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova, Associazione ZONA K di Milano.
La volontà principale degli organizzatori della residenza è dare uno spazio di creazione ed espressione a quei performer che intendano confrontarsi con il digitale in un modo non esclusivamente documentativo, ma prendendosi il rischio di saggiarne le peculiarità.
Dal 22 al 28 ottobre si è tenuta La settimana delle Residenze Digitali, momento di restituzione dei lavori delle sette realtà artistiche selezionate dal bando e seguite per sette mesi dalle strutture partner e da tre tutor, Anna Maria Monteverdi, Federica Patti e Laura Gemini.
Dopo aver seguito con attenzione questo momento di confronto con il pubblico, abbiamo deciso di lasciare alcune impressioni su ciò che ognuno di noi ha visto e ascoltato.
Dealing with absence (Recensione di Francesca Picci)
Quello che Dealing with absence offre allo spettatore è la visione di un viaggio privato, intimo e personale che le danzatrici coinvolte nel progetto di Margherita Landi e Agnese Lanza compiono indossando visori VR e danzando partiture fisiche di film che raccontano e declinano il tema dell’assenza (Lo specchio di Tarkoskij, Persona di Bergman, solo per citarne alcuni).
Il pubblico può assistere a questo viaggio da lontano, da dietro il proprio schermo, e netta rimane per tutto il tempo la consapevolezza che la danza continuerebbe - e quindi continuerà - anche senza di lui. Lo spettatore non vede mai nulla di ciò che appare alle danzatrici attraverso i visori: è nell’intimo della performer che accade un qualcosa che il corpo attraversa rendendolo visibile. Un viaggio solitario anche quando il passo è a due e la danza si fa dialogo: non c’è spazio fisico comune, le stanze e i luoghi rimangono separati, nessun contatto tra i corpi che vivono nello stesso istante in un altrove definito e indefinibile la stessa esperienza.
E danzare l’esperienza appare il modo più profondo di viverla.
I frammenti compositivi vengono interrotti dalla saltuaria apparizione di alcuni fotogrammi, didascalie di pensiero e immagini di film – un semplice Instagram - in un gioco di riconoscimenti, specchi e riflessioni.
L’infinito in un mare di pixel…
un progetto di Margherita Landi, Agnese Lanza
regia VR Margherita Landi
con Lucrezia Gabrieli, Francesca Santamaria, Cora Gasparotti
produzione Gold Enterprice
Sàl|Rite - studio 0.2, Compagnia fuse* (Recensione di Marta Cristofanini)
Sàl in islandese significa anima. E l’intera performance digitale a cui ho assistito e preso parte muove i propri passi da lì: trovare un modo per farla emergere, renderla visibile, l’anima. Come? Attraverso il corpo e la rivelazione di alcuni dei suoi stati interiori, che spesso rimangono una sottotraccia del nostro vivere quotidiano, senza che ve ne sia né comprensione né consapevolezza.
Attraverso una sessione di meditazione guidata da Roberto Ferrari, accompagnata sonoramente e graficamente dai suoi due collaboratori e in qualche modo rappresentata da due giovani che eseguivano insieme a noi spettatori digitali la seduta, si poteva raggiungere uno stato quasi ipnotico di profondo rilassamento. Sbirciando dalla mia posizione supina, si potevano notare dei grafici sulla schermata video in cui erano rappresentate le onde cerebrali, riprese in tempo reale durante le varie fasi della meditazione (le onde Alpha e Theta), insieme alla raffigurazione del battito cardiaco delle due giovani partecipanti in presenza (che avevano degli elettrodi disposti appositamente in punti chiave del corpo per favorire la registrazione e visualizzazione di questi dati).
Dopo l’esperienza ci è stato chiesto di contribuire all’indagine su questo “rito” compilando un questionario riguardante le nostre percezioni in base agli stimoli sensoriali ricevuti e al tipo di evocazioni mnemoniche che l’esperienza ci ha risvegliato.
Ho trovato interessante il lavoro soprattutto perché mi ha presa alla sprovvista: non sono sicura rientri a pieno titolo in quella che definirei “performance digitale”; la trovo piuttosto simile al gettare le basi per una ricerca sullo stato psico-fisico indotto dalle pratiche meditative. Per cui, è stato curioso prendervi parte, ma rimango disorientata a livello artistico ed emotivo rispetto a dove collocarla come esperienza, e a cosa aspettarmi dall’evoluzione di questo lavoro in futuro.
un progetto di fuse*
concept Roberto Ferrari
sound design Nicola Berselli
un ringraziamento speciale ad ASIA Modena, Elahe Rajabiani, Sergio Bertolucci
Olga legge i Critters (Recensione di Irene Buselli)
Credo che una delle virtù più preziose dell’arte in generale e del teatro in particolare sia quella di saper fare sintesi. Non so dire se Olga legge i critters si possa definire teatro, constando essenzialmente di una diretta radiofonica e una pagina web di immagini da scorrere, ma posso dire con certezza che l’esperienza proposta dalla compagnia Jan Voxel è un capolavoro di sintesi, in grado di unire tra loro concetti apparentemente distantissimi con illuminante leggerezza.
Lo spettatore è invitato a scorrere un archivio online di Critters, immagini di vetrini da microscopio contenenti polveri sottili e altre creature invisibili dell’aria. Nel frattempo, ascolta in cuffia voci di sconosciuti che “leggono” quei Critters, raccontando cosa vedono guardando le immagini – il cielo, una stella marina, un uomo che si cala da un palazzo, un sassofono, uno spermatozoo, una festa di chicchi di caffè, e così via.
Quello che all’inizio sembra un esercizio di fantasia fine a se stesso assume via via un diverso livello di profondità, agevolato da una voce che si intromette tra un “lettore di Critters” e l’altro con spunti e citazioni di Donna Haraway, Jason Moore, Matteo Meschiari, a ricordarci il significato politico dell’immaginazione: fuggire dalla tirannia dell’adesso-qui, inventare l’altro, scegliere dimensioni. Un popolo senza immaginazione è schiavo di chi controlla le immagini al posto suo, e questo deve preoccuparci perché, in un mondo in cui Google ci dice facilmente cosa c’è dietro la siepe, si rischia di smettere di immaginare l’infinito. E, sopra ogni cosa – qui Donna Haraway e le sue tesi ecologiste entrano con prepotenza e si rivelano il vero oggetto di interesse dell’intera esperienza – l’immaginazione è forse l’unica via d’uscita dall’agenda distopica antropocenica e capitalocenica, l’unico modo per riconciliare l’uomo alla natura e immaginare – appunto – un futuro di simbiosi e simpoiesi che ci consenta di sopravvivere su questo pianeta.
Olga legge i Critters sorprende per la semplicità con cui veicola allo spettatore una serie di concetti filosofici complessi, senza mai assumere toni didascalici o educativi. L’unico dubbio che resta al termine di questa esperienza, nel contesto di Residenze Digitali, è sulla sua natura performativa: è vero, il programma radiofonico è in diretta, ma la liveness emerge poco o nulla, tanto da far pensare che un podcast registrato sortirebbe esattamente lo stesso effetto. Questo non toglie e non aggiunge nulla al lavoro di Jan Voxel, ma arricchisce il dibattito già aperto su cosa sia performance e cosa non lo sia.
un progetto di Jan Voxel (Lorenzo Belardinelli, Cinzia Pietribiasi, Lidia Zanelli)
estratto dal progetto “The critters room” in collaborazione con Mikroradio
in collaborazione con Compagnia Pietribiasi/Tedeschi
con il sostegno di Ateliersi (Bologna), Officina Leo van Moric (Parma)
I am dancing in a room (Recensione di Irene Buselli)
Prima di accedere alla visione di “I am dancing in a room”, c’è un foyer virtuale in cui si sosta per qualche minuto in attesa dell’inizio della performance. Nell’attesa ci vengono fornite le istruzioni per accedere a una pagina Tumblr che include l’embedding di un video in live streaming: sia tra gli spettatori che tra gli organizzatori che danno queste istruzioni è evidente, se non un vero e proprio senso d’impaccio, una certa mancanza di naturalezza nell’approcciarsi ai dettagli di questo mezzo digitale. Poi, qualche istante prima dell’inizio, fa una veloce apparizione Mara Oscar Cassiani, che si presenta, riassume i passaggi necessari per accedere e scappa rapidamente per “andare in scena”. Il cambio di tono dato dai suoi pochi secondi di presenza nel foyer è eclatante, e segna quella che sarà la cifra di tutta la performance: la completa disinvoltura nell’utilizzo del mezzo digitale. I sette performer connessi dai luoghi più disparati del globo – e su fusi orari lontanissimi – compaiono, scompaiono e ricompaiono continuamente in un affastellarsi di riquadri video, in cui nessuno fa quasi nulla e l’azione è forse proprio solo quella di lasciarsi osservare. L’impressione per lo spettatore è quella di trovarsi di fronte alla home di un social network qualsiasi in cui entriamo per qualche secondo nelle stanze – room, appunto – di completi estranei, di cui scopriamo pezzetti di vita, idee, squarci di personalità, ma rispetto ai quali rimaniamo comunque totalmente distaccati e isolati. Questo è, dichiaratamente, il focus di I am dancing in a room, un focus molto attuale e intorno al quale Mara Oscar Cassiani e gli altri sei performer si muovono con grande scioltezza e alcune buone idee.
Personalmente, però, non riesco a vedere in questi 45 minuti di voyerismo autorizzato qualcosa di più di un divertissement: nulla che susciti un pensiero originale, che stimoli un nuovo punto di vista, nulla che appassioni e neppure che infastidisca. La performance sembra rimarcare una realtà già nota ai più, senza darvi nessuna profondità superiore a quella della semplice constatazione.
un progetto di e con Mara Oscar Cassiani
Con Diana Anselmo, Eric Tsai, Eugene Poogene, Huang Ding Yun, Tseng Chih Wei, Roland Gunst
brano d’apertura Santo, Arturo Camerlengo
con il supporto di mpa Marche Spettacolo, Fusolab 2.0, Super Bubble, RomaEuropa Festival
Woe - Wastage of Events (Recensione di Eva Olcese)
È vero, c’è sempre un certo imbarazzo all’ingresso di una sala virtuale. Così è stato anche per WOE - Wastage of Events: una serie di minuti di attesa scanditi da una voce che voleva tranquillizzarci, dicendo che stavamo solo aspettando l’ingresso in sala di altri spettatori e poi sarebbe iniziato tutto. Appena entrati nel canale Twitch di Lapis Niger (pseudonimo di Matteo Palma), la monotonia di quella voce viene enfatizzata, spezzata e ribaltata dal tono metallico di Giacomo Lilliù: ci ritroviamo in una stazione, davanti a un negozio durante il Black Friday e poi di nuovo nel foyer virtuale, in attesa dell’inizio dello spettacolo in realtà virtuale.
Apertura file in corso…
Non avendo letto The Cage (1975), graphic novel di Martin Vaughn-James, non mi è chiaro quanto sia stato d’ispirazione al Collettivo Ønar per la scrittura della drammaturgia, pur essendo evidente e dichiarata la citazione nelle ambientazioni infestate e desolate. Non è solo perché procediamo in un deserto tra il post-apocalittico e il vaporwave, ma è anche la tensione creata dalle domande e dalla ripetizione ciclica di frasi – in parte prese dalla chat del canale – a indurmi a pensare: “Dove sono andati tutti?”. La stessa voce metallica si stupisce di non trovare bambini davanti alla scuola con la facciata classicheggiante. “Forse – mi chiedo – niente è sopravvissuto all’ultimo backup ed è stata resa necessaria la scelta di una formattazione?”. Molto più probabilmente non c’è nulla di cui stupirsi: anche questa assenza di personaggi è un prestito da Vaughn-James, che definisce il suo fumetto sperimentale e criptico «A book with no story, a book with no characters». Ma anche lo stesso autore di The Cage si rifaceva al Nouveau Roman per questa abolizione ferrea di trama e personaggi. Come per ogni opera dal carattere postmoderno, tuttavia, non conta di chi sia l’idea originaria, quanto se il riutilizzo dei suoi stilemi sia riuscito. La mancanza di corporalità viene resa da Lapis Niger attraverso i movimenti scattosi con cui procediamo nella realtà virtuale, la sequenza ininterrotta di paesaggi e l’assimilarsi del nostro sguardo a quello del visore. Niente, quindi, ha l’aspetto di una esperienza VR realistica. Mentre entriamo negli spazi poligonali di questa scuola in rovina, ci muoviamo tra i corridoi traballanti, deserti se non per qualche wallpaper: la nostra attenzione è sempre più lontana dal dato umano, assecondando la voce metallica che da inizio spettacolo ripete una sequenza di dati su file creati, corrotti, distrutti e aperti. Entrando in questa performance di Residenze Digitali è come se ci fossimo spogliati della nostra materialità: ci siamo trasformati noi stessi in sequenze di dati e i nostri ragionamenti vengono totalmente indirizzati al mondo digitale. Le pareti spoglie della scuola si popolano di immagini di floppy disk in formato PNG, le stanze sono occupate da video della distruzione di un hard disk, da elementi pop come Pikachu e Tamagotchi, e la drammaturgia indaga il mondo della memoria digitale e indugia in riflessioni che vanno dalla definizione lessicale alla considerazione esistenziale. Ma è un digitale fallace, fatto di display in preda agli spasmi, di pixel sgranati, di memorie esterne soggette a continue frammentazioni. Ai nostri occhi sembra che la memoria digitale non conosca tempo, ma WOE ci ricorda che la memoria persiste e si sfalda. Persiste in quanto si sfalda.
È necessario formattare il disco, prima di poterlo utilizzare. Vuoi formattarlo?
Un comando del cursore ed ogni suono digitale è bandito, ogni tremore cessa. Il terminale comunica le ultime notifiche di sistema.
Performance in realtà virtuale, liberamente ispirata dal graphic novel “The Cage” di M. Vaughn-James
di e con Collettivo ØNAR (Giacomo Lilliù, Lapis Niger)
produzione MALTE
Whatever happens in a screen stays in a screen (Recensione di Matteo Valentini)
Ne La Signorina Felicita ovvero la Felicità Guido Gozzano descrive un suo non troppo distante alter ego mentre girovaga assieme all’ipotetica promessa sposa, Felicita, nella soffitta della villa di lei. Durante l’esplorazione, i due si trovano davanti a un abbaino decorato con alcuni paesaggi del Canavese, zona del Piemonte nord-occidentale in cui sorge la villa stessa:
Non vero (e bello) come in uno smalto a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto, la Serra dritta, gli alberi, le chiese.
Il vetro accoglie la realtà circostante e, contemporaneamente, la scherma.
Il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi
è minaccioso ma, per il momento, inoffensivo: una sua immagine tipizzata e grossolana sta lì a separarlo dal poeta e dalla sua amata. Nell’elogio distaccato della finzione e nel riconoscimento del precario rifugio che questa offre dalla realtà si sostanzia una buona parte della poetica crepuscolare di Gozzano.
Una simile inquietudine nei confronti del mondo e un simile rapporto problematico con l’immagine percorrono le sette puntate in cui è suddivisa Whatever happens in a screen stays in a screen realizzato da Chiara Taviani con la partecipazione di diversi performer (Loretta D’Antuono, Lorenzo De Simone, Marco Quaglia, Giselda Ranieri, Simone Zambelli, Natalia Vallebona e Ambra Chiarello).
I video, realizzati interamente grazie all’uso del Blue Screen, vedono l’interprete di turno rappresentare un personaggio attraverso brevi frasi e gesti peculiari all’interno di ambienti che dovrebbero comporre la sua, pur improbabile, quotidianità: Simone Zambelli è uno scrittore di viaggi; Loretta D’Antuono è una giovane madre che cambia continuamente dimora; Ambra Chiarello è la guardiana di una villa con piscina che, nel tempo libero, si dedica alla cura delle mucche e alla preghiera. Al di là delle loro trame quasi pretestuose, ciò che realmente emerge dalle sette puntate è il gioco dei performer con lo spazio digitale che li circonda. "Proiettati" sopra immagini libere da copyright, i loro corpi simulano un rapporto con gli oggetti attorno a loro, ma in modo scopertamente finto: quando Ambra Chiarello tende una manciata d’erba sotto il muso di una mucca immobile o Giselda Ranieri ritrae la mano da una teiera appoggiata a un fornello non intendono convincerci della veridicità dei loro gesti; anzi, la differenza di illuminazione tra i corpi vivi e lo sfondo statico, così come il loro sguardo fisso in macchina, disintegrano qualsiasi sospensione di incredulità. Come in Gozzano, l’immagine in Taviani è tutt’altro che aliena, anzi, appartiene a un universo estetico assolutamente riconoscibile: se nel primo caso vengono citate stampe a larga diffusione e semplici decorazioni artigianali, nel secondo sono riprese immagini create per essere facilmente comprensibili e assimilabili dal pubblico. Nonostante questa approssimazione a un grado zero del gusto, entrambe veicolano un profondo senso di incertezza e, a livello metatestuale, una forte dichiarazione anti-realistica. La differenza tra le due operazioni sta proprio nel rapporto problematico col contingente. Se in Gozzano l’immagine serve a schermare e decostruire una realtà valoriale e materiale serena nella sua grossolanità, benché inevitabilmente insoddisfacente (il giardino di una villa di campagna, la memoria pomposa del Risorgimento italiano, l’istituzione del matrimonio borghese), mentre in Taviani l’immagine, libera da copyright, non ha alcun referente e appartiene a uno spazio pubblico non collettivo, più astratto, incerto e sospeso di quello gozzaniano. L’immagine non scherma più una realtà specifica o specifiche insidie, dato che ignoto è chi e dove l’abbia scattata, e pure se l’abbia fatto davvero, se non l’abbia piuttosto creata attraverso un montaggio di componenti presi chissà dove.
Essa, inoltre, è priva di quel decadente sentimentalismo impregnato di malinconia per un passato sfuggito in un soffio: al contrario, è presa da una certa nostalgia di futuro, come se fosse bloccata nell’attimo in cui viene riprodotta e non potesse andare al di là dello schermo. Infatti, se Gozzano carica l’immagine di un certo passato, magari antidiluviano o ridicolo, ma la priva di un futuro che non sia quello della morte, Taviani agisce esattamente al contrario. Qui le immagini non hanno radici chiaramente definibili, ma contengono una sotterranea smania di futuro espressa soltanto nell’ultima delle sporadiche e misteriose frasi che accompagnano le sette puntate: «Let’s envision and create a place we would love to live».
medio metraggio episodico realizzato grazie all’uso del blue screen
un progetto di Chiara Taviani
con Ambra Chiarello, Lorenzo De Simone, Marco Quaglia, Giselda Ranieri, Simone Previdi, Natalia Vallebona e Simone Zambelli
e con la gentile partecipazione di Francesco Montagna, Maura Teofili e Sofia Naglieri.
Into the woods- La finta nonna (Recensione di Matteo Valentini)
Il lavoro di Lorenzo Montanini, Simona Di Maio e Isabel Albertini non potrebbe essere più distante dal pregiudizio che vede il digitale come un mezzo incorporeo, freddo e sollevato dal tempo. Innanzitutto il contesto della loro opera risale a un’antica fiaba di origine abruzzese, La finta nonna, che rielabora la fiaba di Cappuccetto Rosso inserendovi alcuni elementi di trama poco familiari a chi non abbia letto Fiabe italiane di Italo Calvino. Anna viene mandata dalla madre a prendere il setaccio per la farina da sua nonna che, come noto, vive da sola in mezzo a un bosco. Nel tragitto la protagonista affronta alcune prove di generosità: dona delle ciambelle al fiume Giordano affinché abbassi le sue acque e unge i cardini della Porta Rastrello con i suoi panini all’olio per potervi passare attraverso. Giunta a casa della nonna, la bimba trova non il “classico” lupo, ma un’Orca, e le sue domande non riguardano tanto gli occhi, le orecchie o i denti del mostro, quanto l’abbondanza della peluria che copre il suo corpo. Con un inganno, Anna riesce a scappare dalle grinfie dell’Orca e a prendere il sentiero verso casa. Arrivata alla Porta Rastrello, questa spalanca il suo cancello, memore dei doni della sera prima. Lo stesso accade con il fiume Giordano, che abbassa le sue acque all’arrivo della bimba, ma travolge la malvagia creatura, concedendo alla storia il sospirato lieto fine.
I tre artisti contaminano l’utilizzo del video a 360° con la movimentazione manuale di un vero e proprio set: al di là dell’estrema cura nel creare le ambientazioni fisse (la casa di Anna, il bosco o il prato di fili di lana che costeggia il sentiero), particolarmente suggestive sono le operazioni di manipolazione degli arredi, che vengono compiute allo scoperto, alimentando così la componente performativa. La fruizione non aiutata da un visore VR risulta un poco scomoda, poiché costringe lo spettatore a strisciare in continuazione il dito sullo schermo dello smartphone per poter apprezzare la complessità dell’ambientazione, e tuttavia è coerente con la natura artigianale dell’operazione, che riesce a unire in sé la vertigine visiva stimolata dal digitale e lo stupore fanciullesco che si prova, immancabilmente, di fronte al teatro dei burattini.
un progetto di e con Lorenzo Montanini, Isabel Albertini e Simone di Maio
realizzato a partire da una delle Fiabe Italiane di Italo Calvino, “La finta nonna”
regia video, 360° e scene Lorenzo Montanini
scene e pupazzi Isabel Albertini
manipolazione Simona di Maio
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