Roommates | L’estetica della vulnerabilità
- Francesca Oddone
- 30 mag
- Tempo di lettura: 6 min
«Un outil de création décloisonné». Luogo di creazione coreografica trasversale e senza confini, il Ballet National de Marseille - diretto da alcuni anni dal collettivo (LA)HORDE (trio composto da Marine Brutti, Jonathan Debrouwer e Arthur Harel) – si auto-definisce come un dispositivo fluido, all’interno del quale è possibile concepire e produrre nuove dinamiche di condivisione e circolazione delle forme artistiche. Lo spettatore che assiste alla rappresentazione Roommates, proposta alla Maison de la Danse di Lione, ha fin da subito la sensazione di accedere a uno spazio espressivo non convenzionale. La performance si articola in sei pièces ben distinte, che hanno in comune la capacità di assottigliare le barriere – fisiche, emotive, psicologiche, sociali o culturali – all’interno delle quali il pubblico è abituato a muoversi. Nel portare in scena un linguaggio libero e inclusivo, il Balletto di Marsiglia esprime un’adesione totale verso le scelte del collettivo, celebrando la fisicità in maniera prorompente e dando visibilità a una moltitudine di scritture coreografiche contemporanee e originali.

Alcune delle pièces che compongono la rappresentazione appartengono al repertorio del Ballet National de Marseille: il duo storico Les Indomptés, di Claude Brumachon (1992), ripreso da Marie-Claude Pietragalla nel 1999 per l’Opéra di Marseille e trasmesso in seguito a una trentina di altre compagnie nel mondo (in Italia, conosciuto soprattutto nell’interpretazione di Roberto Bolle e Toon Lobach), il Concerto frastornante di Lucinda Childs (1993) e Room with a view del collettivo (LA)HORDE (2020). Queste opere convivono con tre creazioni più recenti: Weather is sweet, inquietante rappresentazione del desiderio in ogni sua forma, di (LA)HORDE (2022), Oiwa di Peeping Tom (2022), onirico e ispirato all’omonima leggenda giapponese dello spirito femminile vendicativo, e Grime Ballet (Danser Parce Qu’on Ne Peut Pas Parler aux Animaux) di Cecilia Bengolea e François Chaignaud (2022), che trae la sua energia dall’intensità del repertorio musicale grime degli anni Duemila.
È stata proprio la pièce Grime Ballet ad aprire la performance, ad attivare la mia curiosità e a guidare la mia scrittura. I primi istanti vedono quattro danzatori evolvere sul palco senza musica. Portano quattro diversi costumi, grintosi e aderenti: una tuta chiara, con un cuore rosso scozzese cucito sul petto, un’altra gialla, una con un motivo a zig-zag bianco e blu, e una in tessuto viola, acrilico, modello streetwear. In pochi secondi, prima che l’energia (e la musica) esploda, osservo rapidamente che gli interpreti (in questa serata, tre danzatori e una danzatrice) indossano le punte, anche se non le stanno ancora utilizzando, e che le loro fisicità sono espressione di origini asiatiche, africane, nord-europee e mediorientali, o meticce. Ciò che emerge con chiarezza è invece la valorizzazione dei corpi come elementi comunicativi e identitari. Il loro movimento, carismatico e coinvolgente, intreccia e amplifica la presenza dei danzatori in una composizione scenica che, rendendo visibili numerose identità ed estetiche, celebra la diversità come risorsa creativa, a immagine di un microcosmo urbano dalla bellezza potente, disturbante, magnetica.
Si tratta di una creazione deflagrante, che è sostenuta da un disegno luci semplice e affilato (Éric Wurtze, Maria Baranova) e dalle vibrazioni del grime, un genere musicale nato a Londra nei primi anni Duemila, noto per il suo ritmo serrato, i testi crudi e l’energia pulsante. Sulle note e la voce del rapper Stitches, questa coreografia infrange ampiamente le convenzioni della danza classica en pointes. Nell’immergersi in un mondo in cui la fisicità estrema incontra le oscillazioni grezze e underground del grime, il movimento è frammentato, fluido, spezzato e organico allo stesso tempo, in un costante gioco tra controllo, sbandamenti angolari delle anche e abbandono. C’è molta danza acrobatica, molta fitness dance, incalzante, e molta afro vibe. Il pezzo Grime Ballet ricorda una sorta di rito contemporaneo, in cui il corpo diventa linguaggio metropolitano, un grido, uno strumento espressivo potente, animale, liberato. Il sottotitolo Danzare perché non possiamo parlare con gli animali allude forse a un’urgenza primordiale e non verbale, che passa attraverso il ritmo, il gesto, e in cui la danza raccoglie e unisce le pulsazioni complesse che oscillano tra istinto e vita nelle città. Perché le punte allora? Per sfidare le grammatiche codificate della danza ed esplorare nuove forme espressive, ovviamente. Ma anche, come emerge nella chiacchierata con gli artisti dopo lo spettacolo, per portare in scena la vulnerabilità: a partire da quella dei danzatori, che non padroneggiano la tecnica delle punte allo stesso livello, eppure si spingono oltre la tecnica, giungendo attraverso la danza a una sorta di riparazione del sé e della propria intimità. È anche in questo senso che il Ballet National de Marseille rappresenta una sorta di safe place creativo e performativo, all’interno del quale i ruoli sono aperti, fluidi e dinamici.

In linea con l’atmosfera di questa creazione, a chiudere lo spettacolo c’è Room with a view, del collettivo (LA)HORDE. Il mio sguardo si concentra particolarmente sulle due pièce di apertura e chiusura della serata perché mi sembrano le migliori espressioni di quel senso di vulnerabilità e barriere permeabili che incarna tutta la rappresentazione. Con l’ultima performance coreografata dal collettivo torniamo infatti, in qualche maniera, da dove eravamo partiti: energia grezza, espressione di identità, ma anche di caos e aggressività. Lo spettatore riconosce nel movimento e nella tensione emotiva i codici estetici e narrativi propri della danza di strada e coglie l’interdipendenza costante tra i corpi dei nove danzatori. Questi si muovono sullo spazio scenico in un dialogo fisico continuo, reso ancora più intenso dal contatto e dalla tensione ricorrente verso i corpi altrui, dal gesto delle mani che toccano, segnano, afferrano gola, busto, spalle, amplificano la presenza reciproca. La streetdance del collettivo evolve sulla musica del DJ Rone, in un’atmosfera di contestazione e rivolta; mantiene il modello krump della sfida, del confronto e della battaglia tra gruppi (battle dance), con acrobazie ed evoluzioni striscianti sul pavimento. I costumi (Salomé Poloudenny), che spaziano da pantaloni cargo, felpe, jeans e top sportivi dello streetwear all’abbigliamento performativo, riprendono l’estetica metropolitana, disordinata e underground delle gang giovanili e del grime. I colori caotici e gli accessori raw (sneakers, scarpe massicce, strati multipli) accentuano l’idea di una comunità urbana vissuta, marginale, e in movimento.
I corpi pulsano, mimano la rabbia, la violenza, il sesso trasandato, pestano i piedi. Anche la mimica facciale è volutamente scomposta, le bocche semiaperte, gli sguardi alienati o sprezzanti, e veicola atteggiamenti di trasgressione, dominanza e appartenenza. Tutta la pièce esibisce vulnerabilità trasformandola in forza e ribadisce un’estetica cruda, non filtrata, che è il tratto distintivo della street culture. E poi, a un certo punto, oltre a vederli scalciare, agitare provocatoriamente il bacino e ridicolizzare i passi di danza convenzionali, oltre ai capelli appiccicati sul viso sudato, a un certo punto vediamo i danzatori colpirsi il petto con la mano. Farlo ripetutamente, con convinzione, fino ad arrossare la pelle tra lo sterno e le clavicole. Questo gesto, sempre più forte, via via più dirompente, intimo e insieme collettivo, mi sembra poter incarnare - in questa scrittura coreografica - il risveglio delle coscienze: un gesto che lascia affiorare dall’apocalisse dello stordimento tutto il vigore, l’energia positiva e politica delle giovani generazioni.
Elementi di pregio: La vulnerabilità. Il Ballet National de Marseille riflette sul modo in cui la fragilità, la sensibilità o l’esposizione del sé possano diventare forma, linguaggio artistico, o addirittura potere espressivo e politico. Il programma Roommates è modulabile, durante le tournée, in funzione del luogo in cui avvengono le rappresentazioni.
Limiti: Mettendo in risonanza opere così diverse, (LA)HORDE si interroga sulla coesistenza di archivio, repertorio e creazione. Offre momenti di virtuosismo, di equilibrismo e di iperrealismo in cui lo spettatore trattiene il fiato, immerso nella nebbia e nel rumore di pioggia, di fronte a tuffi e cadute solo parzialmente controllati, in cui i corpi quasi nudi dei danzatori rotolano e si lasciano abradere dal palcoscenico. E ne offre altri in cui il pubblico si mette le mani sulle orecchie, che esplodono nel ritmo vertiginoso del disagio giovanile. Alla fine, è un limite soltanto per i deboli di cuore.
Visto alla Maison de la Danse Lyon, 15 aprile 2025
Roommates | Creazione 2022
Concezione (LA)HORDE | Interpretazione Ballet National de Marseille: Joao Castro, Titouan Crozier, Myrto Georgiadi, Eddie Hookham, Amy Lim, Jonatan Myhre Jorgensen, Aya Sato, Paula Tato, Elena Valls Garcia, Nahimana Vandenbussche, Antoine Vander Linden, Lou Zinssner, Jens Vander Pijl | Luci Éric Wurtz © Maria Baranova
Grime Ballet (Danser Parce Qu’on Ne Peut Pas Parler Aux Animaux) | Creazione 2022 • 5 interpreti
Coreografia, costumi Cecilia Bengolea & François Chaignaud | Musica Stitches © Thierry Hauswald
Weather Is Sweet | Creazione 2022 • 6 interpreti
Coreografia (LA)HORDE | Costumi Salomé Poloudenny | Musica Avia
Oiwa | Creazione 2022 • 4 interpreti
Coreografia, costumi Franck Chartier – Peeping Tom | Musica Atsushi Sakai | Design suono Raphaëlle Latini © Blandine Soulage
Concerto | Creazione 1993 • 7 interpreti
Coreografia, costumi Lucinda Childs | Musica Henryk Górecki
Les Indomptés | Creazione 1992 • Duo
Coreografia Claude Brumachon | Musica Wim Mertens
Room With a View | Creazione 2020 • 13 interpreti
Coreografia (LA)HORDE | Costumi Salomé Poloudenny | Musica RONE
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