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  • Marco Gandolfi

Tutto quello che volevo | La logica della merce


La domanda centrale che Cinzia Spanò pone come autrice di Tutto quello che volevo è se sia possibile sanare un crimine apparentemente immedicabile. Se la fiducia nella tradizione di conoscenza e di diritto che fonda la civiltà umana sia ben riposta anche di fronte alla banalità di un orrore sordido e terribile proprio in quanto normale. Drammaturgicamente questa domanda è posta sempre più intensamente, fino ad essere sospesa sulle nostre teste di spettatori schiacciati da una narrazione puntuale e perlopiù sobria, per arrivare infine ad esercitare una pressione e un desiderio di risposta quasi insostenibili.

Il soggetto è basato su una squallida vicenda di cronaca di pochi anni fa che vide protagoniste due ragazzine romane di quattordici e quindici anni, che si prostituivano per clienti della cosiddetta società bene, negli stereotipi cronachistici alcuni “insospettabili” padri di famiglia e professionisti di successo. La vicenda è narrata nel monologo dalla giudice Paola De Nicola chiamata a processare un cliente di Laura, una delle due ragazze, ad accertarne la responsabilità e a stabilire un risarcimento. Nel tratteggiare la vicenda viene riportato un contesto sociale e familiare apparentemente "normale" - altro topos giornalistico talmente usurato da non significare più nulla - all'interno del quale si fatica a trovare qualsiasi motivazione o spiegazione, anche nelle stesse parole di Laura, se non quella preannunciata nel titolo: ottenere "velocemente e facilmente" soldi per avere "tutto quello che volevo". Ma questa spiegazione, apparentemente neutrale, ovviamente non spiega nulla. Uscendo momentaneamente dal personaggio Spanò riflette come la vicenda non si sia definita con i fatti - accertati da una mole incalcolabile di intercettazioni e prove - ma abbia subito una molteplicità di trasformazioni attraverso le molteplici ri-narrazioni che l'hanno riguardata. La prima narrazione è quella in cui avviene la seconda vittimizzazione delle ragazze: la stampa sfruttando con gusto il sensazionalismo della storia ha concentrato la sua attenzione sulle cosiddette "baby squillo" creando una grottesca caricatura in cui i carnefici clienti sarebbero ridicolmente le vittime delle fameliche ragazze. In questa sorta di processo rovesciato si evidenzia lo snodo teorico del soggetto: i professionisti definiti "per bene" come se, nonostante l'evidenza, questa etichetta fosse intangibile, sarebbero le vittime delle ragazze, per definizione invece "tentatrici", e colpevoli di mettere in dubbio la loro rispettabilità. La narrazione che la giudice De Nicola prova a costruire si concentra invece sull'impossibilità di scelta delle ragazze, trasformate in merce dallo scambio di denaro che i loro clienti impongono nella ricerca di possedere la loro giovanissima età. È nell'indagine di questa modalità gerarchica e violenta che lo spettacolo prova ad ampliare la sua visione innestando con successo elementi biografici della giudice, donna che deve subire ogni umiliazione immaginabile per accedere ed esercitare una professione che è comunque e sempre ritenuta essenzialmente maschile. Così l'identificazione tra Laura e la giudice non è così assurda come potrebbe apparire. Infatti la logica di ridurre una persona a un corpo è la premessa che la può portare a diventare anche merce. Quando la giudice racconta degli apprezzamenti al suo fondoschiena, o del fatto che gli imputati chiedano se compariranno davanti a un giudice o davanti a una donna, il cerchio del ragionamento si chiude: esiste un ruolo definito che la cultura dominante assegna e ogni uscita da certi confini va pagata in qualche modo. La sentita recitazione di Spanò si modula con duttilità. Quando la domanda circa la modalità in cui la Giustizia possa risarcire Laura della sua incalcolabile perdita della dignità umana viene formulata in modo esplicito, comincia una sospensione onirica che rappresenta il travaglio della decisione. I dubbi che dovevano affollare la mente della giudice sono tradotti teatralmente in videoproiezioni e intuizioni sonore che percorriamo sul volto sbigottito di Spanò. C'è sempre un livello ulteriore da scendere, un abisso da fissare abbastanza a lungo senza temere (?) che esso stesso ci scruti. Risalendo dal sogno si emerge alla luce. La giudice elabora la sentenza. Non esistono attenuanti per chi ha mercificato la dignità umana. Come non può esserci un risarcimento in denaro per il crimine di “pagare per ciò che non ha prezzo”. Se la Giustizia stabilisse una cifra, non avallerebbe forse lo stesso sistema di scambio che ha portato in primo luogo Laura alla rovina? L'imputato sarà costretto a risarcire simbolicamente e culturalmente, attraverso i libri e i film che spiegano i tentativi di opporsi a una cultura dominante che calpesta e degrada, trasforma le persone in merce, riduce a corpi di cui disporre a piacimento. Un risarcimento che è una possibilità data a Laura di comprendere, un'occasione per uscire da una logica che la condanna in perpetuo ad essere vittima senza riscatto. La risposta alla domanda di apertura è l'esistenza stessa di questo spettacolo. La fiducia che la conoscenza e la sua luce possano arrivare in fondo ad ogni abisso, non certo per farlo sparire taumaturgicamente, ma per penetrarne i motivi e l'essenza. Per scrutare qualsiasi abisso serve luce. Elementi di pregio: interessante progressione drammaturgica; buona duttilità della recitazione. Limiti: l'intimità della Sala Bausch costringe gli spazi specialmente nelle sezioni oniriche. Visto al Teatro Elfo Puccini venerdì 3 maggio 2019. Tutto quello che volevo. Storia di una sentenza di e con Cinzia Spanò regia Roberto Recchia video del "Sogno" di Paolo Turro datore luci Matteo Crespi fonico Gianfranco Turco voci di Irene Canali (Laura) e Ferdinando Bruni, Federico Vanni, Francesco Bonomo, Giovanna Guida con l'amichevole collaborazione di Francesco Bolo Rossini produzione Teatro dell'Elfo

oca, oche, critica teatrale
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