[No fundo do artigo, vai-se encontrar a tradução em português.]
ALTAMIRA 2042 - Gabriela Carneiro da Cunha
TBA - Teatro do Bairro Alto
Alkantara Festival
18.11.2021
Գիշեր Gisher - Giorgia Ohanesian Nardin
Teatro São Luiz
Alkantara Festival
22.11.2021
Dall’Amazzonia al Caucaso - sull’assenza (e sull’intimità)
Questo articolo è costituito da tre parti: una, introduttiva, è dedicata alle “analogie” che giustificano la mia scelta di trattare di questi due spettacoli insieme; la seconda vuole far rivivere la performance di Gabriela Carneiro da Cunha; la terza si occupa di raccontare Gisher di Giorgia Ohanesian Nardin.
Le tre parti possono senz’altro essere lette singolarmente, indipendentemente l’una dalle altre, a seconda della curiosità o del tipo di approfondimento ricercato.
Analogie tra performers
A distanza di pochi giorni, il pubblico dell’Alkantara Festival ha avuto l’opportunità di percepire l’urgenza di due diverse cronache di un mondo in fiamme. Un calore mediato, filtrato dalla convenzione della sala teatrale, giocato su simbologie corporee, messo in scena, insomma, ma non per questo meno vero - nel senso della portata storica, oggettiva, concreta di ciò che è stato raccontato.
Dal cuore dell’Amazzonia alle catene montuose del Caucaso, le creazioni parallele di due artiste, diverse per temperatura ed estetica, hanno costruito una mappa sofferta di alcune emblematiche ferite aperte dell’Antropocene.
Nel tentativo di ripensare e raccontare Altamira 2042 e Gisher, mi sono imbattuto, di fatto, nelle analogie tra le due artiste che hanno firmato in prima persona le loro opere, consonanze profonde, ben radicate nelle loro innegabili e enormi distanze.
Nessuna delle due performance si può definire basata sulla “danza”, in un senso tradizionale. Eppure, c’è una ricerca fortissima sul corpo. E infatti, sia Gabriela Carneiro da Cunha che Giorgia Ohanesian Nardin sono anche - e si dichiarano - ricercatrici indipendenti, non solo artiste. La loro ricerca, vasta, ma che qui riduco ai minimi termini volutamente, sembra davvero un’esplorazione dei diversi piani di focalizzazione offerti dal linguaggio del corpo, attraverso la sua funzione dinamica visibile e invisibile, quella dichiarata e quella negata, nascosta.
La metrica della loro poetica, benché nascosta dai dispositivi espressivi, a mio avviso resta la danza, intesa però come centralità del corpo, come ricerca del movimento, come dinamica identitaria, come linguaggio universale.
Una danza invisibile che manifesta il proprio conflitto vivo - attraverso il quale possono teoricamente deflagrare anche i nostri, individuali e collettivi.
C’è, poi, un aspetto biografico, ovvero la doppia appartenenza, da un lato al proprio luogo d’origine (che sia il Brasile o l’Armenia non importa), territorio semantico in cui convergono il concetto di casa e quello di dolore; dall’altro alla dimensione cosmopolita dell’esperienza pratica della propria carriera, i festival, l’Europa, i pubblici differenti, le schede artistiche, i contatti, le tribù in cui si trovano a recitare il proprio ruolo di performer internazionale.
In fondo a tutto questo - e a molto di più - c’è un’analogia ancora più determinante, che emerge con semplicità: in entrambe si respira un’urgenza che è la chiave del loro stesso lavoro d’artista, ovvero la necessità di una condivisione di una propria dimensione intima o personale, che ha poco a che fare con l’autobiografia e che molto invece illumina la tremenda questione della responsabilità dell’arte.
Qual è lo spazio dell’artista rispetto alla violenza di un conflitto in Nagorno-Karabakh, o rispetto alla minaccia di distruzione di una foresta Amazzonica che è anche immediato corridoio per l’estinzione della specie umana?
Qual è la lingua dell’arte in tempi di guerra globale? Qual è la postura dell’arte, che consente di fermare il tempo, invertirlo, interromperlo, frantumarlo? Perché farlo, con quali aspettative? Con quali energie? Con quale coraggio, o meglio con il coraggio di chi?
La parola che apre le porte di queste due performance è appunto il coraggio, un tema che si ripropone in più momenti di entrambe le serate.
Il coraggio è quello di porsi una domanda vertiginosa, da togliere il fiato: qual è il senso della propria arte?
Carneiro da Cunha risponde con il gioco tremendamente serio di una lotta di cui sceglie di riportare, con un certo distanziamento, suoni, voci, incanti, volti; Ohanesian Nardin replica, al contrario con intimità, attraverso la composizione video di una frantumazione, per sottrazione, per accumulazione di assenza/e.
Cosa vedo, insomma? Nel caso di Altamira 2042, il buio è una coperta, intravedo il corpo della performer, quello delle sette persone del pubblico nello spazio predisposto per la scena, le sagome e i colori ipnotici e irreali della tecnologia utilizzata, vedo le proiezioni, mi sembra di percepire il resto del pubblico, massa informe che tenta, come me, di “vedere”.
Anche in Gisher, l’effetto del vedere è ostacolato. Nella prima parte, quella del video, dalle scelte di montaggio; nella seconda, quella della performer in carne ed ossa che tiene vivo un grande fuoco, fuori dal teatro, il nostro vedere è evidentemente posto in secondo piano, rispetto a un universo sensoriale differente, predominante, quello dell’udito.
Entrambe le performances, infatti, nonostante un massiccio utilizzo di dispositivi video, scelgono, in realtà, l’udito come primaria fonte di senso delle proprie rispettive performances: il nucleo della mia percezione di spettatore, in entrambi i casi, si muove attraverso la voce, o meglio le voci.
Voci che non conosco, a meno che non legga il solito foglio di sala.
Nessuno sa a chi appartengono, queste voci mediate da proiezioni, che prestano il suono a corpi lontani.
Sono voci che confluiscono e si fanno fiume.
Gabriela Carneiro da Cunha allestisce - con un’azione volutamente esteriore, la racconterò - una battaglia, tutta sonora, apposta per noi, il fantasma di una guerra che saremo noi o altri come noi a combattere; Giorgia Ohanesian Nardin ci regala il calore di un fuoco che tiene acceso, davvero, fuori dalla sala teatrale, mentre le voci registrate di chi le ha regalato lunghi e articolati pensieri di prossimità ci raccontano di queste ed altre assenze.
Entrambe, mi sembra, stanno cercando di ricomporre una comunità.
Entrambe, però, per differenti ragioni legate alla natura delle loro performance, non ci guardano (quasi) mai negli occhi.
Non sanno se fidarsi di noi? Mi chiedo.
2. Altamira 2042 - performance della distanza
Altamira 2042 è la seconda tappa di un progetto di ascolto attivo che Gabriela Carneiro da Cunha sta mettendo in pratica in alcuni dei territori violentati del Brasile contemporaneo. Nella prima tappa, la sua ricerca si era concentrata sulla raccolta di testimonianze di donne torturate e disperse, nella regione dell’Araguaia, dove la storia registra uno dei più sanguinosi episodi della dittatura militare brasiliana degli anni ‘70. In Altamira 2042, invece si svelano gli abusi subiti dalle popolazioni che abitano le rive dello Xingu, ricco e potente fiume amazzonico, il cui intero ecosistema sarà irrimediabilmente compromesso dalla gigantesca diga di Belo Monte, la terza più grande del mondo, che alimenta una centrale idroelettrica di proprietà di una compagnia mineraria canadese. Quest’opera, eretta senza alcuna consultazione con le popolazioni locali, svuoterà il fiume di pesci e le terre di vita, condannando alla fame e quindi alla morte o alla migrazione obbligatoria intere popolazioni indigene.
L’artista, a sipario chiuso, davanti al pubblico prima del suo ingresso in scena, chiede la collaborazione di “sette donne o persone che stanno sperimentando una dimensione femminile”. A ognuna di loro rivolge la domanda “Rua o Rio?” (“Strada” o “Fiume”), le donne rispondono e scompaiono con lei, dietro il sipario. Le ritroveremo ad attenderci, sedute o inginocchiate, disseminate sulla scena, mentre noi pubblico ci sediamo intorno a loro e alla performer, a semicerchio.
L’oscurità è quasi totale, rotta solo da casse audio illuminate con neon colorati.
Il suono del fiume ci accoglie, poi subentra un frastornante rombo di macchine, le casse vengono disposte in punti diversi della scena, disegnano moltitudini e solitudini, evocano minacce e rifugi. Si aggiunge il linguaggio della proiezione video/audio, si ascoltano voci, canti, miti antichi.
Si vede, finalmente, il fiume abusato. Ma anche il volto delle donne indigene intervistate.
Gabriela Carneiro da Cunha è nuda, con una cassa che le copre il viso, un’altra dietro la nuca, una terza sotto il ventre, sostenuta da una cintura: non dice, canta però e, attraverso gli amplificatori che indossa, emette luce e colori irreali, agendo in scena come se fosse una rappresentazione misteriosa di spiriti di lotta che sembrano venire fuori dai miti raccontati dalle donne del video.
E poi danza, orchestra le voci, le immagini, sposta le casse in vari punti della sala, manipola, lascia che lo spettacolo sia fatto da e di oggetti inanimati a cui dar vita. Costruisce una narrazione mitica, con una consistente e ostentata matassa tecnologica, votata non all’efficienza soffocante dei dispositivi di riproduzione ma all’evocazione simbolica, non alla “creatività” progressista ma alla creazione.
Non sciamana, questo proprio no: marionettista, piuttosto.
Man mano che emerge la questione di cronaca che anima la performance, però, il pubblico comincia a raccogliere tutti gli elementi di questa cupa vicenda: per me, non è un momento facile. Inizio a percepire l’emergere di un percorso estetico che si sta pericolosamente allontanando dal suo obiettivo etico, osservo - subisco, in realtà - l’horror vacui della parola, della musica, dei cori, di tutti i segni isolati di cui è disseminato lo spettacolo, che inizio meccanicamente a interpretare, ad accumulare, a cercare di decifrare, acquisendo così una condizione periferica, distante, che fa pensare alla storica polarizzazione dell’approccio antropologico etic, di quei ricercatori che per lungo tempo avevano ritenuto di osservare le popolazioni oggetto dei loro studi da un punto di vista esplicitamente esterno, contrapposto ad uno emic, che a partire dagli anni ‘70 del Novecento iniziò a inseguire una comprensione differente, su un piano soggettivo, culturale, esperienziale.
Per così dire, semplicisticamente, mi sento sempre più etic, sempre più lontano da ciò che sta costruendo l’artista.
Mi rendo anche conto improvvisamente che le sette persone che, prima che iniziasse la performance, erano state invitate dall’artista stessa a partecipare in modo “speciale” sono ancora lì in scena, ma un po’ abbandonate a se stesse.
La promessa di peculiarità non è stata di fatto mai mantenuta: non c’è stata una particolare interazione con loro o, se c’è stata, si è nascosta nell’accumulo di stimoli.
Ho la sensazione che qualcosa, in me e/o nella performance, non stia funzionando, ma la narrazione è densa, piena, ci assedia, siamo in guerra, non riesco a pensare davvero come vorrei, non ce n’è il tempo. E allora non ci pensiamo più e andiamo verso l’applauso finale.
E in effetti, si arriva così alla conclusione, con l’evocazione apocalittica di una battaglia epica tra i popoli che difendono il fiume e gli eserciti del capitalismo liberista, attraverso cui, nella finzione profetica, diciamo così, finalmente si “amazzonizzerà il mondo”; si impongono sullo schermo immagini di una diga che esplode, un frastuono impressionante, composto dai ruggiti che fuoriescono dalle solite casse e impreziosito da un fondo di strumenti percossi dal vivo dal pubblico stesso - li abbiamo ricevuti dalle mani della performer, ce li ha affidati perché ne tirassimo fuori dei suoni.
Il pubblico, chi con fatica, chi con foga, esegue diligentemente il proprio compito sonoro.
Ed è questa l’immagine emblematica della vera portata di questa performance: alcuni compiono, con convinzione, l’azione stimolata dalla Carneiro da Cunha, altri lo fanno in modo molto più distratto, così tanto per fare, tanto il proprio rumore non si sentirà. Nessuno noterà che non stanno davvero suonando. O forse, percepiscono che nessuno glielo sta chiedendo davvero.
La tragedia dei popoli del fiume Xingu ci riguarda da vicino e intimamente, ma nessuno degli sforzi artistici della performer mi sembra davvero interessato a ricercare davvero questo legame. Tanto che mi sembra di capire che ciò che caratterizza Altamira 2042 è il rumore, ma non quello della centrale idroelettrica o delle macchine che disboscano ettari di foresta: è un rumore poetico, che nasconde e nel contempo esprime un senso di esteriorità, di incolmabile lontananza.
Uno dopo l’altro i rumori lasciano lo spazio al suono di un flauto, che proviene da una cassa, l’ultima rimasta accesa. Era sempre stata lì, ma per sentire quel suono, era necessario che tacessero gli altri.
Poi il buio: è il segnale per gli applausi, che non mancano.
Torna la luce, com’è convenzione, gli applausi del pubblico si riversano al centro della scena, dalla quale si defilano le sette spettatrici nient’affatto speciali, che tornano a sedersi tra noi e ad applaudire a loro volta.
Applaudiamo a lungo, ma l’artista non esce.
Sarà così anche per Giorgia Ohanesian Nardin.
Un’altra curiosa analogia.
3. Gisher - questi (nostri) fantasmi
Dislocazione, spostamento, cambiamento, inafferrabilità, circolarità, sguardo.
E potrei continuare a giocare con questa piccola perla preziosa di Giorgia Ohanesian Nardin. Nel pensare e ripensare a Gisher, mi rendo conto che più passano i giorni e più mi sembrano solide le sue fondamenta.
Sia chiaro però, non certo perché l’obiettivo sia quello di costruire un palazzo, ma un tempio. E la costruzione non obbedisce a leggi fisiche ma a qualcosa di più profondo e, soprattutto, invisibile, che ha a che fare con l’identità.
Così le radici di Gisher sono immagini giustapposte, sovrapposte, montate una sull’altra, in forte discontinuità, in continua tensione antinarrativa, cercando di ascoltare il ritmo autentico dei pensieri, che sanno scorrere in contemporanea, contaminandosi l’un l’altro, senza mai annullarsi totalmente.
Immagini di una città, di un albero, di una strada, un palazzo, passanti, immagini di un pendolo che gira e gira e gira, di un sandalo che contiene un piede calzato, dell’ombelico di Giorgia Ohanesian Nardin che danza e improvvisamente una pianta con foglie frondose la nasconde, poi una parola, una frase. E nulla è intero, nulla ha la dignità, la capacità di mostrarsi nella sua estensione.
Qui non ci sono segni da interpretare, non ci sono simboli, siamo in un territorio diverso: siamo sempre nel campo della rappresentazione, ma di piani diversi e contraddittori, quindi perfettamente coerenti.
Filmare e frammentare, dire e negare: è un’unica azione, che fluisce in cerchio.
E dopo il video, dopo le parole della performer, dopo tutto quello che è successo, vivo, anche se non dal vivo, Giorgia Ohanesian Nardin, la sua presenza - muta - ci aspetta su un ampio marciapiede, sul retro del teatro, mentre nella strada di fianco sfrecciano i tram elettrici e i taxi. C’è un grande fuoco, al centro; un cerchio di sedie tutte intorno. La Ohanesian Nardin si occupa di tenere vivo questo fuoco, lo alimenta con della legna e delle foglie.
Intanto, le voci registrate di persone amiche che in modalità diverse hanno intrecciato con lei le proprie ricerche artistiche, tra le quali Chiara Bersani e Simone Derai, si susseguono, una dopo l’altra, raccontandoci lunghi pensieri, come respiri lenti, gravidi di sospensione, dolore e intimità.
Erano le relazioni: le fondamenta del tempio invisibile. Fantasmi o spiriti da onorare con gratitudine.
Ognuno dei testi ascoltato è stato raccolto in un libretto, prezioso, che lo staff del teatro ci ha consegnato mentre raggiungevamo la nostra sedia davanti al fuoco e che qualcuno del pubblico ha dovuto sfogliare, per cercare di capire cosa dicessero quelle voci, in italiano o in inglese.
C’erano dei significati che era giusto non perdere, concordo.
Ma c’erano anche dei suoni, che da soli bastavano a scandire emotivamente il percorso di Giorgia Ohanesian Nardin.
In questa seconda parte, nulla più si giustappone, nulla si frammenta.
Ogni cosa ha il suo tempo intero, lento, e quando si esauriscono le voci e la performer si allontana, resta solo il fuoco, vivo, in cui bruciano tutte le assenze di questa profonda, universale e, voglio dirlo, coraggiosa, intimità.
Qualcuno batte le mani, ma stavolta davvero non c’è bisogno di applausi, solo di alzarsi dalla sedia e tornare, con gratitudine, ai nostri fantasmi.
ALTAMIRA 2042 - Gabriela Carneiro da Cunha
TBA - Teatro do Bairro Alto
Festival Alkantara
18.11.2021
Գիշեր Gisher - Giorgia Ohanesian Nardin
Teatro são luiz
Festival Alkantara
22.11.2021
Da Amazónia ao Cáucaso - na ausência (e intimidade)
Analogias entre performers
O público do Festival de Alkantara teve a oportunidade de perceber a urgência de duas crónicas diferentes do nosso mundo em chamas. Um arder mediado, filtrado pela convenção da sala de teatro, jogado nos símbolos do corpo, encenado mas não menos verdadeiro - aqui “verdadeiro” refere-se ao sentido do significado histórico, objetivo, concreto do que foi contado.
Do coração da Amazónia às cordilheiras do Cáucaso, as criações paralelas de duas artistas, diferentes em temperatura e estética, construíram um mapa que explora algumas feridas abertas emblemáticas do Antropoceno.
Na tentativa de repensar e contar Altamira 2042 e Gisher, encontrei semelhanças entre as duas artistas que assinaram pessoalmente as suas obras, consonâncias profundas, bem enraizadas nas suas distâncias enormes e inegáveis.
Nenhuma destas duas performances é baseada na "dança" no sentido tradicional. Ainda assim, há uma pesquisa muito forte sobre a tensão que a dança cria no corpo.
E, de facto, tanto Gabriela Carneiro da Cunha quanto Giorgia Ohanesian Nardin são também - e se declaram - investigadores independentes, não apenas artistas.
A investigação delas, que nestas linhas posso só tentar sintetizar, parece uma exploração dos diferentes níveis de enfoque oferecidos pela linguagem corporal, através da sua função dinâmica visível e invisível, a declarada e a negada, ou escondida.
Depois, há um (duplo) aspecto biográfico: por um lado, refere-se ao próprio lugar de origem (seja o Brasil ou a Arménia), um território semântico para o qual convergem o conceito de casa e o de dor; por outro lado, à dimensão cosmopolita da experiência prática da carreira, dos festivais, da Europa, dos diversos públicos, dos encontros artísticos, dos contactos, das tribos em que as artistas têm de desempenhar um papel, que só eles sabem o quanto é mais ou menos confortável.
No fundo de tudo isto - e muito mais - está uma analogia ainda mais decisiva, que surge com simplicidade: em ambos os projectos existe uma urgência. A urgência é a chave dos trabalhos destas artistas, ao lado de uma exigência de partilhar a própria dimensão íntima ou pessoal. O que pouco tem a ver com a autobiografia e que, por outro lado, ilumina a terrível questão da responsabilidade da arte.
Qual é o espaço do artista no que diz respeito à violência de um conflito em Nagorno-Karabakh, ou no que diz respeito à ameaça de destruição de uma floresta amazónica que é também um corredor imediato para a extinção da espécie humana?
Qual é a linguagem da arte em alturas de guerra global?
Qual é a postura da arte que permitiria parar o tempo, revertê-lo, interrompê-lo?
Porquê fazer isso? E com quais expectativas? Com quais energias? Com qual coragem, ou melhor, com a coragem de quem?
Coragem é a palavra que se encontra muitas vezes dentro do caminho destas duas performances.
A coragem de fazer a si próprias uma pergunta muito difícil, também vertiginosa: qual é o sentido da própria arte?
Carneiro da Cunha responde com uma encenação de uma luta que vem de longe, reproduzida em cena por sons, vozes, imagens projetadas; Ohanesian Nardin responde, quase ao contrário, poderíamos dizer, com intimidade, pela composição complexa de um vídeo, editado por subtração e de uma ação ao vivo, caracterizada por um acúmulo de ausências.
Enfim, o que é que eu vejo? No caso de Altamira 2042, na escuridão da cena, consigo vislumbrar o corpo da performer, os corpos das sete pessoas da plateia no espaço montado para a cena, as formas e cores hipnóticas e irreais da tecnologia utilizada.
Vejo as projeções, pressinto apenas a presença do resto do público, uma massa informe que tenta, como eu, "ver".
Também em Gisher, o efeito de ver é prejudicado.
Na primeira parte, a do vídeo, a partir das opções de montagem fílmica; na segunda, apesar de a performer, em carne e osso, manter um grande fogo vivo fora do teatro, a visão é obviamente colocada em segundo plano, em comparação com um universo sensorial diferente e predominante, a audição.
Ambas, apesar do uso massivo de projeções de vídeo, acabam por escolher o ouvido como fonte primária de significado para as próprias performances: o núcleo da minha percepção como espectador segue o caminho da voz, ou melhor, das vozes.
Vozes que não conheço bem, a não ser que leia os nomes escritos na folha de sala.
Ninguém sabe a quem pertencem, estas vozes mediadas por projeções, que emprestam o seu som para corpos distantes.
São vozes que convergem e se tornam um rio.
Enfim, de um lado, Gabriela Carneiro da Cunha arma - com uma ação deliberadamente externa, que vou descrever - uma batalha, toda sonora, só para nós, o fantasma de uma guerra onde nós ou outros como nós lutaremos; de outro, Giorgia Ohanesian Nardin nos dá o calor de um fogo que continua fora do teatro, num espaço exterior onde ouvimos longos e articulados pensamentos de vozes desconhecidas, manifestações de uma proximidade que nos fala destas e de outras ausências.
Ambas, parece-me, tentam recompor uma comunidade.
Ambas, no entanto, por razões diferentes relacionadas à natureza das suas performances, (quase) nunca nos olham nos olhos.
Não sabem se devem confiar em nós?
2. Altamira 2042 - performance com distância
Altamira 2042 é a segunda etapa de um projeto de escuta ativa que Gabriela Carneiro da Cunha está a praticar em alguns dos territórios violados no Brasil contemporâneo.
Na primeira etapa, a sua pesquisa consistiu na recolha de testemunhos de mulheres torturadas e desaparecidas, na região do Araguaia, onde a história refere dum dos episódios mais cruéis da ditadura militar brasileira dos anos 1970.
Em Altamira 2042, ao invés, cruzamos os abusos sofridos pelas populações que habitam as margens do Xingu, um rico e poderoso rio na região das Amazonas, envenenado pela barragem de Belo Monte, a terceira maior do mundo, que alimenta uma gigantesca central hidroelétrica, propriedade de uma empresa canadiana de exploração mineira.
A artista, com a cortina fechada, diante do público antes de entrar em cena, pede a colaboração de "sete mulheres ou pessoas que estão vivenciando uma dimensão feminina". A cada um deles faz a pergunta "Rua ou Rio?" , as mulheres respondem e desaparecem com ela, atrás da cortina.
Vamos de facto encontrá-las à nossa espera, sentadas ou ajoelhadas, espalhadas pelo palco, enquanto nós, público, nos sentamos em torno delas e da performer, em semicírculo.
A escuridão é quase total, quebrada apenas por altifalantes iluminados com neon colorido.
O som do rio acolhe-nos; depois, um rugido estonteante de máquinas toma conta da cena.
Os altifalantes estão dispostos em diferentes pontos da cena: evocam multidões e solidões; ameaças e abrigos. A linguagem da projeção de vídeo / áudio é adicionada: ouvimos vozes, canções, mitos antigos.
Finalmente, vemos as imagens do rio abusado. E também o rosto das mulheres indígenas entrevistadas.
Gabriela Carneiro da Cunha agora está nua, com um altifalante a cobrir o rosto, outro atrás do pescoço, um terceiro abaixo da barriga, seguro com um cinto: ela não fala, mas canta e, por meio dos amplificadores que usa, emite luzes e cores irreais. Quer atuar em cena como se fosse uma representação misteriosa de espíritos lutadores que parecem sair dos mitos contados pelas mulheres do vídeo.
E então ela dança, orquestra as vozes, as imagens, move os altifalantes em vários pontos da sala, manipula, deixa o espetáculo ser feito por e de objetos inanimados que criam a narração. Assim, ela constrói uma narrativa mítica, com meios tecnológicos consistentes, votados não na sufocante eficiência dos dispositivos de reprodução, mas na evocação simbólica deles; não na "criatividade" que tão gosta ao progresso, mas mesmo na criação.
Não é uma xamã, de certeza: tem mais a ver com uma bonequeira, ao contrário.
À medida que surge a crônica dos dramas coletivos das povoações do rio Xingu, o público começa a recolher todos os elementos dessa história: para mim, como espectador, de certeza não é um momento fácil. Começo a perceber o surgimento de um caminho estético que se afasta perigosamente de seu objetivo ético, observo - na verdade, sofro - o horror vacui da palavra, da música, dos coros, de todos os signos isolados de que é espetáculo disperso, que mecanicamente começo a interpretar, a acumular, a tentar decifrar.
Estou á adquirir assim uma condição periférica, distante, que nos faz pensar na polarização histórica da abordagem antropológica “etic”, daqueles pesquisadores que por muito tempo haviam pensado em observar as populações objetos de seus estudos de um ponto de vista explicitamente externo, em oposição a um “emic”, que a partir da década de 1970 passou a buscar um entendimento diferente, em um nível subjetivo, cultural, experiencial.
Sinto-me cada vez mais étic, cada vez mais distante do que o artista está a construir.
De repente, reparo que as sete pessoas que, antes do início da performance, foram convidadas pela própria artista para participar de uma forma "especial", ainda estão lá no palco, mas um pouco abandonadas a si mesmas.
A promessa da peculiaridade, de fato, nunca foi cumprida: não havia nenhuma interação particular com elas ou, se calhar, foi escondida pelo acúmulo de estímulos.
Tenho a sensação de que algo, em mim e / ou na performance, não está a correr bem, mas a narrativa é densa, cheia, ela nos assedia, tornamos nós mesmos bonecos dentro de uma guerra, que vamos combater com instrumentos de percussão que a performer nos entregou durante um longo momento de suspensão. E, assim, mais desorientado que envolvido, sinto-me dentro da parte final do espectáculo.
De facto, a conclusão é uma evocação apocalíptica de uma batalha entre os povos que defendem o rio e os exércitos do capitalismo liberal. É a luta final, através da qual, nesta ficção profética, finalmente "o mundo se amazonizará"; seguem imagens filmadas de uma barragem que explode, um estrondo impressionante, composto pelos rugidos que saem dos alto-falantes e reforçados pelos nossos instrumentos. O público, quem com dificuldade, quem com entusiasmo, desempenha diligentemente a sua boa tarefa de percussionista que toma a parte do bem contra o mal.
E esta é a imagem emblemática da intensidade desta performance: há pessoas que reagem, com convicção, a ação estimulada pela Carneiro da Cunha, outrəs fazem parte do jogo numa forma muito mais distraída. Ninguém vai notar se eləs estão realmente jogando ou não.
Ou talvez, eləs percebam que não é preciso, nesta escuridão.
A tragédia dos povos do rio Xingu nos toca de perto e intimamente, mas nenhum dos empreendimentos artísticos da performance me parece realmente interessado em buscar esse vínculo. Tanto que me parece que o que caracteriza Altamira 2042 é o ruído, mas não o da hidrelétrica ou das máquinas que desmatam hectares: trata-se um ruído confuso, que esconde e ao mesmo tempo expressa uma sensação de exterioridade, de distância intransponível.
Um após o outro, os ruídos vão dando lugar ao som de uma flauta, que vem de uma caixa, a última que sobrou. Sempre esteve lá, mas para ouvir aquele som, os outros tinham que ficar em silêncio.
Depois a escuridão faz-se total: é o sinal de aplauso, que não falta.
A luz volta, como sempre, os aplausos do público derramam-se no centro da cena, de onde escapam as sete espectadoras especiais - de forma alguma -, que voltam a sentar-se entre nós e aplaudir por sua vez.
A gente aplaude muito, mas a artista não sai.
O mesmo acontecerá com Giorgia Ohanesian Nardin.
Uma outra curiosa analogia.
3. Gisher - estes (nossos) fantasmas
Deslocamento, mudança, indefinição, circularidade, olhar.
E eu poderia continuar brincando com as palavras chaves, para focar melhor esta pequena pérola preciosa de Giorgia Ohanesian Nardin. Ao pensar e repensar sobre Gisher, percebo que quanto mais os dias passam, mais sólidos me parecem seus fundamentos.
Pois, claro, certamente não porque o objetivo é construir um edifício que não se destrói: estas são fundações de um templo invisível, que não precisa desafiar as leis físicas. Gisher é uma criação vegetal, só precisa estar profundamente enraizada e pronta para existir.
As imagens ficam justapostas, sobrepostas, montadas umas sobre as outras, em forte descontinuidade, em contínua tensão anti-narrativa, procurando respeitar, o mais que seja possível, o autêntico ritmo dos pensamentos.
Os que sabem fluir simultaneamente e se contaminam, sem nunca aniquilar totalmente.
Se vêem imagens:
de uma cidade,
uma árvore,
uma rua,
um prédio,
pessoas que passam,
um pêndulo em ação,
uma sandália que contém um pé calçado
o umbigo de Giorgia Ohanesian Nardin que dança e de repente uma planta com folhas frondosas a esconde.
E mais, uma palavra, uma frase, um pensamento, uma dúvida, uma declaração de amor ou de confusão.
E nada é íntegro, nada tem a dignidade ou a capacidade de se mostrar em sua extensão.
Aqui não há signos a interpretar, não há símbolos, estamos em um território diferente: estamos sempre no campo da representação, mas em níveis diferentes e contraditórios, portanto perfeitamente coerentes.
Filmar e fragmentar, dizer e negar: é uma ação única, que flui em círculo.
E depois de tudo o que aconteceu no ecrã, um acontecimento gravado mas vivo também, Giorgia Ohanesian Nardin, ou melhor, o seu corpo, a sua presença - calada - espera-nos numa calçada larga, no fundo do teatro, enquanto elétricos e táxis passam na rua ao lado.
Há um grande fogo no centro; um círculo de cadeiras ao redor.
A Ohanesian Nardin apenas cuida de manter este fogo vivo, ela o alimenta com lenha e folhas que ela já havia recolhido antes.
No entanto, as vozes gravadas de pessoas amigas que, de modalidades diferentes, entrelaçaram as próprias pesquisas artísticas com ela, como por exemplo Chiara Bersani e Simone Derai, se sucedem, uma após a outra: contam pensamentos longos, como respirações lentas, grávidas de suspensão, dor e intimidade.
São as relações: a fundação do templo invisível. Fantasmas ou espíritos que devem ser homenageados com gratidão.
Cada um dos textos ouvidos foi colocado em um livro - precioso, que vou guardar - que a equipa do teatro nos deu quando chegamos à nossa cadeira em frente ao fogo. Parte do público teve que espreitar um pouco as palavras no livrinho, para tentar entender o que aquelas vozes estavam dizendo, em italiano ou em inglês.
Havia significados que era certo não perder, concordo.
Mas também havia sons, que por si só foram suficientes para marcar emocionalmente o caminho da performance de Giorgia Ohanesian Nardin.
Nessa segunda parte, nada mais se justapõe, nada se fragmenta.
Ao contrário, tudo tem o próprio tempo inteiro, lento, longo, e quando as vozes se esgotam e a performer se afasta do espaço, só fica o fogo, vivo, em que ardem todas as ausências dessa intimidade profunda, universal e corajosa.
Alguém bate as palmas, mas desta vez não há necessidade de aplausos, apenas para nos levantarmos da cadeira e voltarmos, com gratidão, aos nossos fantasmas.
Traduzione di Massimo Milella, corretta da Mariana Santos / tradução por Massimo Milella, corrigida por Mariana Santos
Altamira 2042
idea / concepção Gabriela Carneiro da Cunha
regia / direção Gabriela Carneiro da Cunha, Rio Xingu
orientamento di ricerca e interlocuzione artistica / orientação da pesquisa e interlocução artística Cibele Forjaz Dinah de Oliveira, Sonia Sobral
responsabile assistenti alla regia / diretor assistente João Marcelo Iglesias
assistenza alla regia / assistência à direção Clara Mor, Jimmy Wong
con testi di / com textos de Raimunda Gomes da Silva, João Pereira da Silva, Povos indígenas Araweté e Juruna, Bel Juruna, Eliane Brum, Antonia Mello, Mc Rodrigo – Poeta Marginal, Mc Fernando, Thais Santi, Thais Mantovanelli, Marcelo Salazar, Lariza montaggio video / montagem de vídeo João Marcelo Iglesias, Rafael Frazão, Gabriela Carneiro da Cunha
montaggio del testo / montagem textual Gabriela Carneiro da Cunha, João Marcelo Iglesias
sound design / desenho de som Felipe Storino, Bruno Carneiro
costumi / figurinos Carla Ferraz
luci / Iluminação Cibele Forjaz
idea dell’installazione / concepção da instalação Carla Ferraz, Gabriela Carneiro da Cunha
produzione dell’installazione / produção da instalação Carla Ferraz, Cabeção, Ciro Schou
tecnologia, programmazione, automazione / tecnologia, programação, automação Bruno Carneiro, Computadores Fazem Arte
creazione multimediale / criação multimédia Rafael Frazão, Bruno Carneiro
lavoro del corpo / trabalho corporal Paulo Mantuano, Mafalda Pequenino
traduzione del manifesto Amazzonia centro del mondo / tradução do manifesto Amazônia Centro do Mundo John Elliott
sottotitoli / Operação das legendas Margarida Serrano
audiodescrizione / Audiodescrição AR Produções, Lda
immagini / imagens Eryk Rocha, Gabriela Carneiro da Cunha, João Marcelo Iglesias, Clara Mor, Cibele Forjaz
ricerca / pesquisa Gabriela Carneiro da Cunha, João Marcelo Iglesias, Cibele Forjaz, Clara Mor, Dinah de Oliveira, Eliane Brum, Sonia Sobral, Mafalda Pequenino, Eryk Rocha
direzione di produzione / direção de produção Gabriela Gonçalves
produzione / produção Corpo Rastreado, Aruac Filmes
coproduzione / coprodução Corpo Rastreado, MITsp – Mostra Internacional de Teatro de São Paulo
diffusione internazionale / difusão internacional Judith Martin/Ligne Direct
Gisher
testo / texto Giorgia Ohanesian Nardin
riprese / filmagens F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin
suono e luci / composição de som e luz F. De Isabella
drammaturgia del video / dramaturgia vídeo F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin
illuminazione ambientale / ambiente de luzes Giulia Pastore
domande / perguntas Kamee Abrahamian, Ilenia Caleo, Taguhi Torosyan
traduzione / tradução Giorgia Ohanesian Nardin, Taguhi Torosyan, Matilde Vigna, Marta Prino Peres
note di traduzione / notas de tradução Clark Pignedoli Vozes Kamee Abrahamian, Chiara Bersani, F. De Isabella, Simone Derai, Maddalena Fragnito, Jamila Johnson-Small, Ndack Mbaye, Giorgia Ohanesian Nardin, Raffaele Tori, Taguhi Torosyan
design editoriale / design editorial Flo Low
sottotitoli / legendagem Marta Prino Peres
produzione / produção Giulia Messia
Il video contiene immagini di / O vídeo contém imagens de Ghost Theatrede Vahram Galstyan e Repentance.Variation on themes by Pinturicchio and Raphael (dedicated to Vasily Katanyan) de Sergei Paradjanov
si ringrazia / agradecimento Studio Azzurro, Luca Chiaudano, Yuri D., Valentina Stucchi
produzione / produção Associazione Culturale VAN, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia-Romagna, Centrale Fies Art Work Space
coproduzione / coprodução Be My Guest - Network for Emerging Practices Apoios AtelierSì Bologna, ICA Yerevan, Movin’Up – sostegno alla mobilità degli artisti italiani nel mondo, Spazio Fattoria Milano, DiD Studio Milano
Comments