La terza edizione di Intransito (qui gli articoli su prima e seconda serata) si chiude con la vittoria di Fil rouge del Collettivo L’Amalgama. Nella motivazione ufficiale della giuria, presieduta da Angela Fumarola, Direttrice Artistica di Armunia, emerge la volontà di premiare la scelta coraggiosa delle cinque attrici di articolare un testo corale, in una rassegna di spettacoli fortemente incentrati sul monologo o sulla scena “a due”.Al di là della qualità di Fil rouge e del merito che va opportunamente dato alle cinque attrici/autrici (Caterina Bernardi, Angelica Bifano, Federica Di Cesare, Clara Mori e Miriam Russo) il fatto che a vincere sia un collettivo è significativo e, per dirla tutta, incoraggiante.Il segnale auspicato dalla giuria, infatti, in virtuosa controtendenza con quanto accade in altri concorsi nei quali il criterio della sostenibilità dei progetti diventa un requisito fondamentale per poter ottenere un supporto economico, sembra essere quello di non farsi opprimere dagli angusti ragionamenti su una oggettiva difficoltà di distribuire e promuovere un lavoro più complesso, per lo meno sul piano della logistica, e di porre invece l’attenzione sulla questione della poetica, sul testo in sé..
Si tratta dunque di un invito a tornare a riflettere sul teatro, sulla drammaturgia, sulla scena, più che sulla “vendibilità di un progetto”: un piccolo spazio di libertà creativa che, nell’articolato sistema teatrale italiano, diventa una vera e propria boccata d’ossigeno.
Sabato 18 novembre
Eoika
di e con Sabrina Vicari e Federica Aloisio
L’imbroglietto
di Niccolò Matcovich
con Livia Antonelli, Valerio Puppo e un Mac Book
La serata si apre con Eoika e fin dall'inizio il mondo che evocano le due danzatrici palermitane è in grado di esercitare sul pubblico una forte fascinazione.
Un gigantesco corpo femminile disteso al centro della scena, avvolto da una stoffa rossa, sotto una luce a pioggia che ne svela tutte le pieghe, classiche, sanguigne, sembra un mostro di delicatezza. Le due attrici, celate sotto visi infantili disegnati sulle loro guance, si nascondono nel tessuto, ci giocano, l’una incarna la testa e la parte superiore del corpo, l’altra ne interpreta quella inferiore. Anche quando nello sviluppo della scena finiscono per separarsi, continuano a esercitare una sola energia, il corpo resta unico e le due componenti si compensano, giocando con le articolazioni, in una danza di inquietante sensualità in cui il tema del doppio viene affrontato in modo ludico.
La scena si esaurisce e le danzatrici si cambiano mentre l’illuminazione a intermittenza taglia i loro gesti, regalando al pubblico solo fotogrammi della loro metamorfosi, accompagnati da suoni di balbettii, incertezze del linguaggio, imperfezioni che preparano la creazione. Quando la luce torna piena, la centralità del corpo diventa la schiena: Aloisio e Vicari mostrano un volto con grandi occhi disegnato sulla zona lombare, rivolta verso il pubblico. Uno dei personaggi sorride, l’altro no. Sulle note di Fred Buscaglione, si esibiranno in una danza comica, farsesca, che reitera la sua grammatica di gesti: pugni chiusi che simboleggiano ora chiusura ora trionfo, le mani, che a volte si afferrano per tirarsi su quando il personaggio più triste crolla a terra senza forza, altre volte si toccano appena, dito su dito, come nel celebre dipinto michelangiolesco.
È una ripetizione che allude a un rituale, una coreografia semplice che ipnotizza e coinvolge fino al suo naturale esaurimento.
La seconda metamorfosi, scenicamente identica alla prima, riporta i corpi separati delle due danzatrici, impegnate stavolta nel disegnare occhi e labbra su tutte le superfici della loro pelle, sui polpacci, sugli avambracci, sul collo. L’evocazione dello stereotipo della bellezza femminile, il contorno nero degli occhi, le labbra rosse, disseminati su tutto il corpo, attraverso una coreografia essenziale e secca, sostituiscono, nascondendoli, i veri occhi e labbra. Un'operazione cubista di rimontaggio del corpo, della bellezza, il segno che sostituisce la realtà.
E quando le strade tematiche di Eoika cominciano a moltiplicarsi, ecco che arriva il finale a riportare al centro dell’osservazione il punto focale del lavoro di Vicari e Aloisio: una luce di torcia dietro un telo rosso illuminato. Si spengono le luci sulla scena, la luce persiste, è un cerchio giallo, cerca qualcosa, si spegne. Il segnale che, benché Eoika sia un dispositivo raffinatissimo costruito sul linguaggio del doppio e sull’apparenza, il centro della riflessione resta la ricerca dell’uno, dell’identità.
La drammaturgia danzata, solidissima, stupisce e convince, in quarantacinque minuti di poesia del corpo e idee molto chiare. Meritatissimi gli applausi.
Più complesso nelle premesse, invece, eppure non così articolato nel suo contenuto profondo, è L’imbroglietto.
Anche qui, il protagonista è il gioco del linguaggio. La comicità promessa, i riferimenti colti al mondo di Valentin e Karlstadt, il naso da clown, gli esercizi di stile, tra Queneau e Paolo Nani, con cui i due bravissimi interpreti, Livia Antonelli e Valerio Puppo, tentano di convincere una inflessibile bigliettaia, interpretata dalla voce digitale del Mac Book - inquietante presenza scenica, con la persistenza della sua mela illuminata ogni volta che le luci della sala calano per i cambi scena - a “visitare il teatro”.
Antonelli e Puppo articolano e disarticolano il corpo, l’alfabeto, le lettere, gli stili del loro strampalato dialogo e, su imposizione della sadica voce del Mac, lo presentano al pubblico in più forme, per cui assistiamo a una versione “stile Star Wars” con tanto di comico combattimento con spade di plastica, ad una “giapponese” in cui le parole italiane scandite e sillabate per fini farseschi intervallano un grammelot orientaleggiante.
La carrellata, per sua natura, è un gioco e, per sua natura, ha un vantaggio e uno svantaggio: da un lato diverte perché punta sulla complicità del pubblico che comprende chiaramente le regole del gioco ed è felice di parteciparvi; dall'altro rischia di esaurirsi stancamente, perché il cerchio è una linea continua, non ha una fine e ogni interruzione sembra essere innaturale.
Così, quando i due attori terminano lo spettacolo, lasciano la sensazione di qualcosa di incompleto, di intentato, il dubbio che un progetto del genere sia molto ben studiato e, soprattutto, ben recitato, ma che non indaghi davvero le forme del linguaggio, non vada in profondità dove vorrebbe andare, restando più comodamente nelle pieghe della performance, delle risate, della rassicurante superficie.
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