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La locandiera di Antonio Latella | Una fedeltà senza fiducia

Massimo Milella

Prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, La locandiera di Carlo Goldoni, con la regia di Antonio Latella, arriva a Genova quasi al termine di una prolifica tournée che, dal debutto all’Argentina, a Roma, nell’aprile 2023, ha toccato già più di trenta città in due stagioni, quasi tutte tra Centro e Nord Italia, con l’eccezione di Napoli, nel Sud e di Lugano, in Svizzera (le permanenze più lunghe sono state due settimane a Roma l’anno scorso e a Torino quest’anno). Non foss’altro che per la caratura di spessore di tutte le maestranze nel cast artistico (di cui Sonia Bergamasco è naturalmente l’elemento di punta) e tecnico (solo a titolo di esempio, Franco Visioli è un maestro del sound design, l’ho visto all’opera tanti anni fa durante un workshop in una biennale diretta da Latella e mi lasciò un’impressione straordinaria), siamo di fronte a un prodotto, presumibilmente, con un budget considerevole, in termini di investimento e fiducia, almeno tenendo conto dell’ecosistema teatrale italiano di oggi. Non faccio fatica a credere, peraltro, che l’importanza dello spettacolo sia stata anche ripagata dal pubblico degli abbonati dei nazionali e TRIC: di tutto il repertorio – non certo enorme, tutto sommato – di classici del teatro in lingua italiana, La locandiera è certamente tra i titoli più amati. Insomma, numeri alla mano, è quel che si dice un successo annunciato. Al netto delle condizioni produttive, però, uno dei (molti, forse troppi) compiti della critica può essere quello di porsi la questione dell’urgenza, in un’offerta teatrale nazionale generalmente ipertrofica e ansiogena (una pressoché totale dipendenza economica dai capricci gestionali delle politiche ministeriali, sistematizzata nella frenesia di produzioni destinate, in larga parte, a scomparire prematuramente). È, dunque, intorno all’urgenza di una “riattivazione” della Locandiera goldoniana, che cercherò di far convergere le mie analisi. A prescindere dal “come”, insomma – intorno al quale sollevo alcune perplessità – è il territorio del “perché” quello che andrò a esplorare.


La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo
La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo

La restituzione drammaturgica è fedele, al netto di una differente scansione di atti (due anziché i tre originali), ma il tempo dell’azione è evidentemente collocato in un contemporaneo indefinito. E già questa prima rottura va registrata. L’evidenza, infatti, di una distanza dal Settecento goldoniano è negli occhi dello spettatore già nei costumi (a cura di Graziella Pepe) ed è su questi che vorrei soffermarmi innanzitutto. Gli abiti scenici comunicano soprattutto il senso di comfort di una borghesia trasandata o casual. In realtà, idealmente, sembrerebbe esistere una divisione di caratteri tra chi è o chi si sente “a casa” e chi invece viene da un mondo esterno. 

Nel primo caso, senz’altro figurano il Marchese/Giovanni Franzoni in maglione e jeans e il Conte/Francesco Manetti, con dei pantaloni della tuta, belli o brutti non so, ma sicuramente comodissimi, in quanto habitués che bisticciano sin dall’inizio, nella spoglia atmosfera della scena, ostello senza pretese, con un tavolo, unico arredo dello spazio comune, un angolo cottura e una grande parete di legno, intarsiata, che ne fa da fondo. Nemmeno da discutere su chi comandi qui nella locanda: naturalmente, Mirandolina/Sonia Bergamasco, padrona dello spazio, del suo corpo, oltre che della sua storia d’attrice e di personaggio, che entra in scena scalza, con una vestina bianca corta, di chi si è appena levata dal letto. L’estate leggera che porta con sé stride con le diverse stagioni che suggeriscono i suoi due spasimanti senza speranza. Altra discontinuità.

Tra le figure evidentemente appartenenti al mondo esterno, nel ruolo marginale ma funzionale che tutto sommato avevano anche nell’invenzione goldoniana (e si potrebbe forse scrivere una recensione tutta basata su questa scelta specifica), è quello delle commedianti che si fingono dame (Ortensia/Marta Cortellazzo Wiel e Deianira/Marta Pizzigallo), in abiti scuri, eleganti ma non troppo, travestimenti ambigui perfetti per la doppia natura della loro “recita” (attrici vere che recitano attrici di finzione che recitano dame). Ci sono poi due figure intermedie, ma opposte, che si integrano e, infatti, si tengono per rivali: il Cavaliere/Ludovico Fededegni, esplicitamente fuori moda, o per lo meno con un abbigliamento che sembra dare l’idea di chi non ha troppo a cuore l’eleganza, nel suo lungo, ordinario cappotto marrone, pantaloni blu e ciabatte (salvo, credibilmente ma forse anche prevedibilmente, ben vestirsi quando si scopre perdutamente innamorato di Mirandolina) e, dall’altra parte il formale e composto cameriere della locanda, Fabrizio/Annibale Pavone, giacca e camicia impeccabile dentro i pantaloni, per il quale il panciotto di rappresentanza sarà oggetto scenico importante quando lo scaraventerà con rabbia sulle vettovaglie della cucina, indignato per qualche risposta da lui poco gradita di Mirandolina. Entrambi non sono “di casa”, anzi entrambi non lo sono “ancora”, almeno inizialmente, il primo perché dichiara esplicitamente di disprezzarne il valore, il secondo perché non ammesso a prenderne possesso e collocazione. Ed è su questo tipo di schematismi, di segni, appunto, che lo spettatore può, se vuole, soffermarsi sin dall’inizio. E magari notare, se ne ha voglia, come i due attori in particolare utilizzino i loro costumi come vere e proprie scenografie, abitandoli, ovvero adattando i loro corpi, le loro posture ad essi – Fededegni ha spesso la testa bassa, incavata nelle spalle alte, da adolescente timido e aggressivo, eppure ostenta indifferenza al mondo circostante; Pavone, al contrario è compatto, posato, un adulto controllato, diremmo, salvo poi trasmettere costantemente cupezza, nervosismo, frustrato com’è dall’ambiguità del suo doppio stato di promesso sposo e servo. 


La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo
La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo

Insomma, prima che la mia recensione assuma i sinistri contorni di una iper-analisi del respiro dell’attore x o y, forse ho già dato l’idea che, a mio avviso, lo spettacolo mostra sin dall’inizio di avere un certo interesse a trasmettere segni, ora didascalici, ora interessanti, ora funzionali, ora un po’ più complessi da individuare. Sono segni che testimoniano di un lavoro sotterraneo, naturalmente, che cerca di dare a ogni singolo istante una direzione, una traiettoria. Allo stesso tempo, l’impianto sembra mostrare un maggiore interesse nel dialogo col pubblico che tra gli stessi personaggi: ogni singola scelta artistica, infatti, richiede espressamente a chi guarda di farsi riconoscere, scoprire, cogliere (sempre che i telefonini, che deflagrano continuamente con le loro suonerie – tutte uguali, tra l’altro: che fine hanno fatto le quattro stagioni di Vivaldi? i Mozart? – lo consentano), quasi a prescindere da ciò che si dicono i personaggi in scena. Il rischio, in generale, è quello di una diffusa disorganicità, di una disconnessione profonda tra gli attori/personaggi in scena, perché ogni segno si offre a un’interpretazione, a una traiettoria, che a volte, però, a seguirla fino in fondo, porta verso dei luoghi non attentamente esplorati, i luoghi del “perché no?”. 

Un esempio di luogo del “perché no?”, a mio avviso: l’insistenza del Servitore del Cavaliere, un personaggio (interpretato ombrosamente anche lui, come uno specchio ancora più rabbioso di Fabrizio, da Gabriele Pestilli)  che, turbato dall’improvviso interesse del suo padrone per Mirandolina, fa intuire al pubblico – praticamente ogni volta che entra o esce dalla stanza – con eloquenti sguardi taglienti, una tensione omoerotica tra loro. È qui che viene da pensare, ma sì, in fondo, perché no? Ma perché non cercare nello spazio di questo dubbio, di questa possibilità, cioè, un altrove interessante, fino ad aprire davvero una breccia autentica nel testo goldoniano? Così com’è, invece, sospeso nel vuoto, risuona del tutto speculare alla sensazione interrotta e sfuggente legata dall’introduzione in scena della chitarra elettrica, imbracciata dallo stesso Servitore – e analogo discorso si potrebbe fare per l’uso dell’armonica del Cavaliere – elementi di passaggio, che vanno e vengono, compaiono e scompaiono, senza muovere nulla all’interno del magma della vicenda: sembrano, almeno a me, ora paesaggi inghiottiti dalla velocità di un treno in corsa (le esigenze del ritmo), ora oggetti posati su un tavolo, un po’ fuori posto (perché poi un’armonica? perché una chitarra?). 

Sicuramente più interessante, invece, forse perché frutto di una convincente fase dramaturg di riattivazione, è la proposta del gioco dello Shangai. È il Cavaliere a portarlo nella locanda, e anche questo dettaglio è significativo, innanzitutto per il tipo di gioco (è il caso o il destino che determina il momento iniziale, quando si abbandonano le bacchette sul tavolo), ma anche per le qualità specifiche richieste per la sua riuscita (estremo controllo delle proprie azioni, freddezza, capacità di rimozione, di sé e degli altri…). È una bella idea, secondo me, fertile. Il gioco del Cavaliere, che viene dal “fuori” della locanda, ha regole e modalità che  nel “dentro” dei manicaretti, delle salsine, dei gioielli, dei doni, non hanno alcuna efficacia. Tuttavia, sembra che l’unico percorso a cui tenda questa presenza si sciolga nella rissa finale tra il Conte e il Cavaliere, con l’ausilio delle controscene del Marchese (un’interpretazione a metà strada tra Fantozzi e Ruzante – o Rabelais – la sola a offrire un modesto ristoro a chi cercava di trascorrere una domenica pomeriggio “in commedia”), quando ecco che improvvisamente le bacchette, spossessate dal territorio semiologico del personaggio del Cavaliere, diventano spade, brandite da personaggi bambini, denunciando le proprie rispettive impotenze. Ed ecco che il mistero sottile dello Shangai, prestandosi all’esigenza pragmatica di una scena oggettivamente complessa e caotica (spesso il confine tra magia e pragmatismo in teatro è labile), smette di esistere. E lo spettatore-critico catturato dall’interpretazione freudiana si svapora (o si rinsavisce, beninteso!) nel dinamismo dei fanfaroni plautini.


La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo
La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo

In un contesto in cui, pur nella convenzione di una quarta parete, i personaggi non sembrano davvero avere a che fare l’uno con l’altro nel mondo a loro ritagliato, tra dialoghi e gesti che sembrano sempre destinati a qualcosa d’altro, nel sotterraneo dei propri processi interni o nell’atmosfera volatile della sala, non fa eccezione e quindi non stupisce anche l’approccio di Sonia Bergamasco alla sua Mirandolina. 

I suoi tre monologhi costituiscono i passaggi chiave della trasformazione del suo personaggio, almeno nell’impostazione goldoniana (se ricordo bene, il critico Momigliano sosteneva che questi – e in particolare il primo – fossero le parti meno riuscite della commedia). Mi sembra significativo il modo della grande attrice milanese di renderli, ovvero fedelmente (nel testo) ma senza fiducia (nel corpo). Il testo è identico, per quel che mi pare, ma nulla di ciò che viene agito conserva la temperatura della scena che lo precede: assistiamo a vere e proprie sacche isolate all’interno dell’opera, delle cesure - il che è anche interessante per l’etimologia comune al verbo decidere, in un certo senso, che è poi l’azione che viene compiuta in questo spazio. Il fatto è che la dimensione intima di Mirandolina appare completamente scissa rispetto a quella pubblica: ostenta, qui, uno stato mentale alterato, quasi onirico, tutto interno alla propria solitudine, connotata improvvisamente da tortuosità di pensiero (considerando la veste immutata del testo, è un illuminante cambio di prospettiva rispetto alla bidimensionale “trasparenza” dei propositi del personaggio goldoniano), contrapposta al pieno controllo razionale che manifesta nel suo regno, tra i suoi sudditi innamorati. E così, nel suo soliloquio (con tratti vagamente ibseniani) arriva a scomporsi in posture liquide, sinuosità diaboliche, ora salendo su tavoli e sedie, ora danzando con il cappotto del Cavaliere conquistato.

E forse qui bisognerebbe chiedersi il motivo di tante e tali discontinuità, di tante e tali rotture, tra i personaggi e all’interno di sé stessi. In questa crepa generale, si affaccia certamente il sospetto che ci sia un abisso di troppo tra il processo creativo e il risultato scenico, che insomma, il sovraccarico di segni appesantisca l’impianto e spezzi ogni filo. 

E forse la recensione potrebbe davvero finire qui, se non ci fosse un bacio. 


La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo
La locandiera | Foto di Gianluca Pantaleo

Un bacio che nella scrittura goldoniana non c’è e forse non ci sarebbe mai potuto essere, un tradimento insomma. Ed è un bacio appassionato, quello che Mirandolina dà al Cavaliere quando questi le dichiara, senza più alcuna resistenza, il suo amore, peraltro in uno stato di profonda alterazione, al limite della mania, offuscato da un’aggressività palpabile. 

Ebbene, questo è un momento in cui la scissione del personaggio di Mirandolina trova per me un respiro drammatico, quasi tragico e mi rendo conto di una cosa: il rischio del fallimento dello spettacolo è, dunque, concreto, eppure viene corso lo stesso. Mirandolina non solo ha perso il controllo del suo gioco – il Cavaliere in queste condizioni è oggettivamente una minaccia per l’integrità fisica di chiunque – ma anche perché lei stessa, nonostante tale aggressività, sembra non sapergli resistere. Il bacio, quel bacio, non è quello di una vincitrice sullo schiavo d’amore, bensì è il segno di un cedimento, innescato da un terremoto con un epicentro molto profondo. Non è un caso che, in quell’istante, breve e interminabile, ho guardato di nuovo, quasi istintivamente il fondo della scena, la grande parete di legno, sugli intarsi della quale, in più di un momento, durante lo spettacolo, diversi personaggi si erano piuttosto inspiegabilmente soffermati, imbambolandosi, turbati, come intrappolati: improvvisamente, Mirandolina mi è sembrata assediata e la parete – di nuovo, il fantasma di questo spettacolo, dappertutto: il segno –  era il muro invalicabile di una città in cui i nemici sono già entrati, sono sempre stati dentro, cioè.

Se, nel grande disegno goldoniano, la Locandiera dell’immaginaria Firenze (e forse la reale Venezia) del Settecento concentrava su di sé il massimo prototipo di libertà a cui doveva e poteva arrivare una società borghese progressista (leggasi: Mirandolina arrivava a lambire l’estremo confine di libertà che la società borghese patriarcale era disposta a concederle), qui, nel progetto registico di Latella e nel percorso della dramaturg Linda Dalisi, non vi è alcuna traccia di fierezza. Al contrario, la luce che irradia è livida, sinistra, disturbante e si sposa con le crepe sonore che provengono dai grandi neon che sovrastano la scena, suoni di interferenze, di abbassamenti di corrente, di minacce di blackout. 

Nel suo quasi pinocchiesco “di questi spassi non ne prenderò mai più” si staglia un peso soffocante, reso ancora più opprimente dalla postura dell’ombroso Fabrizio, sul fondo della scena, perfettamente aderente a quella parete, a quel muro che la protegge dal mondo esterno (la minaccia del Cavaliere) e la condanna alla repressione (il matrimonio con questo specifico Fabrizio). E quando vediamo sparire il Cavaliere, pensiamo che questa Mirandolina, qui e ora, si è almeno salvata la vita. Il costo di questa sopravvivenza è alto, però, perché, lo spazio della libertà personale si è ridotto, tragicamente. Ed è questa chiave che forse riapre il gioco delle interpretazioni e si affaccia il dubbio che la sensazione di disorganicità, di disconnessione generale, di esteriorità, anche di inefficacia scenica, siano il risultato di una sorta di sabotaggio. Costi quel che costi, quasi a prescindere da ciò che dicono e fanno questi personaggi (scelta opinabile, da me non condivisa come spettatore critico, ma comunque una scelta, non una mancanza di cura), lo spettacolo sembra attraversata da un’unica accecante e ostinata urgenza: un’amarissima restituzione di uno stato dell’arte della condizione della mirandolina di oggi, uno spaccato di isolamento in cui nessuno si parla e la comicità suona impolverata, ovvero non c’è granché da ridere. 

La fedeltà al testo è una fedeltà repressa, senza fiducia, e custodisce una ferita: ogni idealizzazione borghese è tramontata per sempre. Oggi, Mirandolina, assediata dal patriarcato, non ha più alcuna possibilità di controllo di sé e del suo corpo. È sempre meno libera, sempre più in pericolo. 




La locandiera, visto al Teatro Nazionale di Genova l'1 dicembre 2024 

di Carlo Goldoni

regia Antonio Latella

con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Annibale Pavone, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo

dramaturg Linda Dalisi

scene Annelisa Zaccheria

costumi Graziella Pepe

musiche e suono Franco Visioli

luci Simone De Angelis

assistente alla regia Marco Corsucci

assistente alla regia volontario Giammarco Pignatiello

produzione Teatro Stabile dell’Umbria 



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