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  • Irene Buselli

Me ne vado


Marcela Serli

Quando Marcela Serli entra in scena, il palco del Teatro Bloser è vistosamente spoglio; al termine dello spettacolo, mentre l'attrice esce tra gli applausi, ai suoi piedi sono invece disseminate decine di barchette di carta, alle sue spalle un fazzoletto bianco e un manico di scopa simulano vela e albero maestro di un'imbarcazione improvvisata.

Si potrebbe, in effetti, descrivere semplicemente così l'epicentro tematico di Me ne vado: la povertà della scena che si trasforma in luogo di passaggio, l'inadeguato che tenta di diventare adatto, l’individuale che si fa insieme. E, sopra ogni cosa, la miseria che aspira a muoversi, a prendere il largo. «Me ne vado» infatti è il pensiero che popola i desideri di chi, nella propria terra, non riesce a trovare altro che povertà: di beni materiali, di legami, di libertà. Ed è proprio questa urgenza ad accomunare "paesaggi umani" - come da definizione dell'autrice - estremamente diversi tra loro, popoli separati da oceani e sparsi in continenti agli antipodi.

Marcela Serli questa urgenza la conosce, e prima di lei la conoscevano le generazioni precedenti della sua famiglia: il padre triestino emigrato a Tucumàn, la madre argentina figlia di libanesi emigrati a loro volta. Ognuno con le proprie ragioni per andarsene, ognuno con le proprie radici irrimediabilmente contaminate dall’identità del Paese d'arrivo: e lei, Marcela, erede di «una radice tanto grossa che un baobab mi fa un baffo».

Inizia così questo monologo, con cenni biografici raccontati sui toni della comicità, uniti a elementi di improvvisazione che la legano immediatamente al pubblico in una relazione estremamente diretta, quasi colloquiale. Poi, mentre gli spettatori vengono invitati a fare barchette di carta con il copione dello spettacolo - inutilizzato e inutilizzabile a detta dell'attrice/autrice - la recitazione assume toni più scuri, il viaggio che Marcela ha intrapreso per trovare una terra dove la sua enorme radice potesse trovare spazio non è più solo ricerca di un luogo, diventa frammentata osservazione di popoli, confini, guerre, miserie umane e disumane.

Sul palco la vediamo trasformarsi, senza bisogno di alcun travestimento, da desaparecido a separatista ceceno, da «negro» a scafista, evocando le violenze messe in atto o subite da popoli indissolubilmente legati ai loro territori, rappresentando il pensiero di chi cerca di andarsene e l'oppressione di coloro che restano.

Non è la prima volta che Serli si fa autrice e interprete di progetti legati al teatro sociale e civile, concentrandosi in modo particolare sul concetto di identità e sulle discriminazioni da esso generate: il suo Variabili Umane, realizzato insieme al gruppo Atopos nel 2010, affronta infatti «il problema dell’identità biologica, civile ed emotiva della persona».

Marcela Serli in un momento di Me ne vado

I frammenti di tutte queste sofferenze si mescolano, in Me ne vado, in un vortice che tende, per sua natura, al rischio del patetismo; rischio da cui Serli fugge ogni volta, un attimo prima di cadervi, suscitando il riso del pubblico un istante prima del pianto. È questa l'unica risposta che l'attrice oppone al pericolo della retorica e del sentimentalismo, ed è una risposta senza dubbio valida, anche se il meccanismo diventa, alla lunga, prevedibile; viene da chiedersi, inoltre, se queste brusche risalite sulla superficie rassicurante della risata non rischino, talvolta, di ridurre riflessioni di natura profondamente etica - dolorose, certo - a luoghi comuni da sdrammatizzare.

In ogni caso, l'alternanza tra comico e tragico funziona bene, soprattutto grazie alla capacità di Serli di entrare in contatto con gli spettatori tanto da avvertirne, apparentemente, la temperatura emotiva, gestendo i passaggi di intensità nel modo più naturale possibile. E Me ne vado, in fondo, si riduce a questo: un luogo di passaggi, un manifesto poetico dell'andarsene, un messaggio - prima che politico - estremamente umano.

Elementi di pregio: L'incredibile abilità di Marcela Serli nel far convivere stand-up comedy e momenti di toccante e catartica commozione.

Limiti: Lo spettacolo sfiora in più punti il patetismo, discostandosene solo attraverso improvvise - seppur opportune - virate al comico.

Visto al Teatro Bloser il 21 gennaio 2018

Durata: 100 minuti

Di e con: Marcela Serli

oca, oche, critica teatrale
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