Quest’anno il Festival dei Due Mondi di Spoleto si è aperto nel segno del mito, trasfigurato nel linguaggio del teatro musicale contemporaneo alla luce delle riletture che ne hanno tratto alcuni grandi autori del Novecento. Anche questa volta Silvia Colasanti si è affidata a una prassi artistica che sembra essere consolidata: dopo Variazioni su Orfeo e Faust, la compositrice romana ha scelto di ispirarsi al racconto Il minotauro di Dürenmatt, da cui ha tratto un’opera in dieci quadri.
Una vera e propria sfida, anche a detta degli stessi autori del libretto, René de Ceccatty e Giorgio Ferrara: «il racconto di Dürenmatt è interamente riflessivo: non si tratta di una narrazione, ma di una ballata (…). Non ci sono dialoghi. La seconda difficoltà era individuare l’inizio della storia».
A dispetto di una tradizione mitografica che ha sempre privilegiato il punto di vista di Teseo e Arianna, il Minotauro diventa il protagonista del dramma umano del diverso, che viene percepito come una minaccia per l’ordine sociale. All’inizio dell’opera il mostro si ritrova circondato da pareti di specchi che riflettono la sua immagine, scambiata inizialmente per esseri reali, uguali a lui, e arriva a credere, per dirla con Dürenmatt, «d’essere come un capo, anzi di più, come un dio». Lo scrittore svizzero aggiunge subito dopo «se avesse saputo cos’è un dio». Eppure il Minotauro dell’opera, interpretato da Gianluca Margheri, si definisce nel primo quadro «re» e «dio»; da qui si può dunque partire per misurare l’efficacia di un adattamento che affida a un libretto il compito di restituire del protagonista gli stessi istinti, pensieri, emozioni che nell’originale sono sottoposti all’ulteriore mediazione del narratore. Tale ruolo viene in qualche misura assunto dal coro, delegato a commentare l’azione, operazione che rimanda in maniera evidente alla sua funzione originaria nella tragedia greca; un coro composto dagli uccelli che nel finale del racconto si avventavano sul cadavere del Minotauro.
Il personaggio, coacervo di impulsi primari, è stato quindi trasformato in interprete quasi da subito consapevole di sé, nel tentativo di esplicitare sulla scena un vero e proprio percorso interiore popolato da impulsi e sentimenti ai quali il mostro non può dare nome: è «l’assurda follia / di unire insieme all’amore la morte» di cui sono vittime alcuni giovani ateniesi, interpretati da allievi dell’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico.
Spesso si corre così il rischio di banalizzare la complessità di un testo dal carattere più filosofico che narrativo e non pensato per la scena, oltre a snaturare un personaggio che Dürenmatt delinea in maniera precisa nella prefazione: «Non era un uomo con una testa di toro, bensì un toro con un corpo umano – una differenza, questa, sostanziale – sicché non era affatto un intellettuale, anzi al contrario, ma in compenso era dotato di una furia e di una forza superiori a ogni descrizione, cui non avrebbe resistito la porta di nessuna prigione».
I 10 quadri scandiscono la presa di coscienza del Minotauro, che si materializza sulla scena attraverso movimenti essenziali. La partitura, muovendosi soprattutto sul terreno dell’onirico e dell’astrazione, funge da correlativo oggettivo di un microcosmo, quello del labirinto di specchi, simulacro del reale e metafora universale. Questo tipo di atmosfera è evocato anche dai contrasti fra luce e buio, fra le sembianze scure del mostro e le tonalità chiare del trucco e dei costumi degli altri personaggi, da cui spiccano le parrucche di gusto settecentesco.
La parola è scolpita in un canto che tende al declamato e che ha modo di dispiegarsi davvero solo nell’aria di Arianna. Nel dare voce e uno spazio maggiore ai personaggi di Arianna (Benedetta Torre) e Teseo (Matteo Falcier), si è scelto di rendere esplicito il tema dell’inganno e, di conseguenza, la trasformazione definitiva del carnefice in vittima. Per un attimo, poco prima di essere ucciso, il Minotauro vive nell’illusione di poter finalmente fuggire dal labirinto. Se il passaggio da un Teseo che si avvicina al mostro fingendo di esserne il riflesso a un altro che si manifesta come essere in carne e ossa risulta troppo repentino e, quindi, poco chiaro, ciò non può che dipendere per buona parte dalla scelta di sacrificare all’incalzare degli eventi un adeguato approfondimento dei nuovi personaggi, dalle motivazioni troppo deboli.
Un peccato che l’idea di dare agli uccelli la voce del coro, in buca insieme all’orchestra diretta dal maestro Jonathan Webb, sia stata tradotta solo in termini musicali e non sia invece stata resa scenicamente: non solo la scelta sarebbe risultata più potente, ma avrebbe forse conferito maggiore dinamicità a una scena a volte statica.
Elementi di pregio: impeccabili, dal punto di vista musicale, vocale e scenico, le prove degli interpreti.
Limiti: esperimento forse troppo ambizioso quello di drammatizzare un testo più filosofico che narrativo.
Opera lirica in 10 quadri
Musica di Silvia Colasanti
Libretto di René de Ceccatty e Giorgio Ferrara
Prima rappresentazione: Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, 29 giugno 2018
direttore: Jonathan Webb
regia e scenografia: Giorgio Ferrara
luci: Fiammetta Baldisseri
aiuto regista: Patrizia Frini
Minotauro: Gianluca Margheri, baritono
Arianna: Benedetta Torre, soprano
Teseo: Matteo Falcier, tenore
Vittime ateniesi: Federico Benvenuto, Irene Ciani, Renato Civello, Serena De Siena, Eugenia Faustini, Angelo GAldi, Alessia Genua, Cecilia Guzzardi, Francesco Iaia, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Eleonora Pace, Giulia Tomaselli, Carlo Zanotti (attori diplomati dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma
Orchestra Giovanile Italana
International Opera Choir
maestro del coro: Gea Garatti
produzione Spoleto 61 Festival dei 2Mondi
Fondazione Teatro Coccia di Novara
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