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  • Redazione

Sei visioni da FuoriFormato 2020

a cura di Irene Buselli, Marco Gandolfi e Matteo Valentini


Riunire così tante persone per un festival di danza contemporanea, ad agosto, a Cornigliano, dopo tutto quello che è successo, è stato per certi versi un’impresa emozionante. Dirlo può sembrare retorico o convenzionale, ma farlo non deve esserlo stato per niente. E allora, innanzitutto, pensiamo sia necessario ringraziare il Teatro Akropolis, RETE Danzacontempoligure, l’associazione Augenblick e il Comune di Genova per essere riusciti a ospitarci anche quest’anno all’interno di Villa Bombrini, vero e proprio locus amoenus nel vecchio cuore industriale (o nel cuore vecchio-industriale) di Genova.


Se fossimo api, ci saremmo fiondate su Villa Bombrini come sul miele, ma siamo oche, per natura onnivore e poco avvezze alle metafore di tipo “esclusivo”. Tuttavia abbiamo zampettato con estrema attenzione nei giardini della villa, anche se non in maniera continuativa. È per questo che non abbiamo scritto, come nella scorsa edizione del festival, un resoconto per ogni singola serata, ma un articolo unico che ragiona e si interroga su tutto quello che siamo riusciti a vedere e anche, in un certo senso, a non vedere.


In diversi spettacoli presentati quest’anno ricorrono figure tratte dal mito, classico e non solo, con la funzione di cornice narrativa, ispirazione politica o fonte iconografica.

Negli anni trenta dell’Ottocento talvolta accadeva che i pittori della scuola di Barbizon, i primi naturalisti, interessati alla resa il più precisa possibile della materialità visiva della natura, ornassero i loro dipinti presi “dal vero” della foresta di Fontainebleau con ninfe e satiri nell’atto di giocare o rincorrersi. Loro lo facevano sia perché i soggetti mitologici erano quelli più appetibili presso il grande pubblico borghese, sia per conferire dignità a opere che erano ancora, sprezzantemente, considerate degli studi.

Per quale ragione molti danzatori, coreografi e performer sentono oggi la necessità di riferirsi alla mitologica greco-romana per proporre linguaggi e tematiche contemporanee?

A questa domanda viene da rispondere con altre domande: è ancora necessaria una tradizione autorevole per giustificare o rendere comprensibile una sperimentazione? Quanto la tradizione autorevole è adatta a veicolare una pratica contemporanea? Il recupero del mito intende rielaborare in modo fecondo una narrazione condivisa o nascondere, dietro un riferimento sbrigativo, una sostanziale mancanza di solidità e di idee? L'operazione di recupero del mito ha carattere culturale, in quanto attinge da un sostrato comune, condiviso, di immediata riconoscibilità? Oppure ha carattere intellettuale e richiama mondi che non appartengono più a nessuno, se non a livello nozionistico o accademico? Cosa coglie il pubblico dei riferimenti mitologici nascosti tra le brevi note di regia e la scena? Il fatto che non li colga è utile o dannoso alla comprensione dello spettacolo? E se li coglie?


Tra le opere in questione c’è IYNX, spettacolo extra call curato direttamente da RETE Danzacontempoligure e messo in scena dai genovesi Olivia Giovannini, danzatrice e performer, e Luca Serra, musicista e videoartista, con il supporto illuminotecnico di Giulia Ferrando. Iynx è il nome di una delle tante ninfe della mitologia greca punite da Era per i loro legami clandestini con Zeus: nel suo caso particolare, Iynx non seduce Zeus ma, esperta di filtri d’amore, lo fa innamorare della giovane Io. “μαινάδ' ὄρνιν” - "Mainàd'òrnin", “l’uccello coribante”, laddove per "coribante" si intendeva la figura del sacerdote della dea Cibele: così Pindaro definisce il volatile in cui Iynx è costretta a trasformarsi, l’uccello ispiratore del delirio, o “Jynx Torquilla”, secondo la denominazione linneiana, in grado di torcere il proprio collo di 360 gradi. Sempre stando al mito, Iynx è anche il nome di uno strumento di seduzione inventato da Afrodite che, attraverso un movimento rotatorio, emette un suono stridulo e ipnotico capace di incantare la persona amata.

Le diverse suggestioni che questo mito raccoglie vengono declinate secondo uno stile dalle influenze vagamente minimaliste e, al tempo stesso, gotiche: il palcoscenico allestito nei giardini della villa è occupato da due file di neon bianchi; al loro interno Luca Serra, quasi immobile nel suo completo nero, dal fondo del palco modula i ronzii e le vibrazioni che accompagnano la coreografia, mentre Olivia Giovannini, vestita di nastro adesivo, collant e stivaletti neri, sul proscenio esegue movimenti lenti, spezzati, ma al tempo stesso ampi e vigorosi, indossando una voluminosa maschera nera a forma di becco che, una volta tolta, viene saltuariamente sostituita da una esasperata smorfia di scherno. Da un punto di vista “filologico”, tutti gli elementi del mito sono senza dubbio messi in scena (la trasformazione in uccello, i suoni striduli, la rotazione), ma i trenta minuti di esibizione non sembrano altro che una libera variazione su questi elementi, in cui si fatica a trovare un’idea che vada al di là della semplice rappresentazione di Iynx in quanto ninfa “menade”: seducente, pericolosa, delirante e beffarda. Al di là dell’utilizzo della musica elettronica e della maschera, prerogative di Giovannini già nella performance interior/a presentata a Fuori Formato 2018, resta poco chiaro quale sia il contributo di IYNX alla rielaborazione del mito classico, che cosa ne tragga, che cosa aggiunga rispetto al fulmineo “μαινάδ' ὄρνιν” di Pindaro.



Un approccio al mito del tutto opposto è quello di Claudia Caldarano, che nel suo Sul rovescio rimanda al dio romano Giano Bifronte per approfondire una pratica corporale di “scompostezza”, deformazione ed estraneità portata avanti almeno a partire da Anomalia sulla distanza del 2017. Sono diversi anni, infatti, che la danzatrice, applicando una maschera alla nuca e una parrucca sul volto, indaga il rapporto ambiguo che lega la fronte e il retro del proprio corpo, un rapporto paradossale di compresenza e di reciproca invisibilità, in cui mette in discussione la quotidiana preminenza della fronte e si confronta con l’intrinseca utopia del corpo umano, per tentare di afferrarne la presenza.

È stato Michel Foucault, in una breve conferenza radiofonica del 1966, a parlare della carica utopica che investe il corpo umano, della sua irrimediabile invisibilità ai nostri occhi, e delle utopie che, viceversa, il nostro corpo sprigiona attraverso la maschera, l’uniforme, il tatuaggio e, contemporaneamente, assume dentro di sé (“il corpo di chi danza non è appunto un corpo dilatato, secondo uno spazio che gli è interno ed esterno nello stesso tempo?”). È stato sempre Foucault a parlare del corpo come “punto zero del mondo”, rispetto al quale c’è un sopra, un sotto, un lontano e un vicino: dunque, di un corpo che è altrove rispetto a tutto ciò che lo circonda, utopico in questo senso. Cosa riporta il corpo alla contingenza, al qui e ora? L’illusione dello specchio -il riflesso-, la minaccia della morte -il cadavere- e il loro immediato parente, l’amore: “fare l’amore è sentire il proprio corpo richiudersi su di sé, esistere finalmente fuori da ogni utopia, con tutta la propria densità, tra le mani dell’altro”.

Sul palcoscenico sgombro, con i vestiti e la maschera sulla nuca privi di un qualunque obiettivo stilistico o decorativo, Caldarano impone alla schiena di essere un petto, alla nuca di essere una gola, falsa la meccanica delle articolazioni e la rivolta contro il movimento naturale, assume posture umane o animali, ma sempre carnevalesche, dissidenti, non tanto per sfidare l’organo percettivo dello spettatore, bensì per cercare un altro modo per placare l’utopia del proprio corpo.



La Notte di Makara di Francesca Zaccaria, in apertura della seconda serata, si definisce “Primo Studio”. Il carattere di brogliaccio, di appunti per un futuro spettacolo è paradossalmente il suo pregio più importante; non solo fornisce allo spettatore una rara occasione di ragionare sulle parti in divenire di una coreografia, ma ben si accorda con il carattere esplorativo e decostruttivo dell’analisi mitologica che fa da sfondo anche a questo spettacolo.

Makara è una divinità acquatica dalle multiple rappresentazioni e più diverse iconografie: nel panorama della mitologia indiana - ricchissima, complessa e per lo più impossibile da circoscrivere anche vagamente per l’occidentale non specialista - è una figura sovraccarica di significato. Zaccaria si concentra iconograficamente sulla forma coccodrillo di Makara e simbolicamente sulla sua dimensione di protezione delle soglie, nello specifico l’attraversamento del confine tra caos (primordiale) e ordine (culturale). Questa delimitazione simbolica è particolarmente efficace come chiave di lettura multipla e ricorsiva; la possiamo applicare all’essenza stessa del mito, ordinatore dell’ingovernabilità intrinseca della Natura, ma anche alla coreografia di questo studio in cui elementi disarticolati, genericamente riferibili a un inconscio animale, sono via via armonizzati in movimenti più omogenei, sempre evitando di mostrare un progresso in senso di valore del gesto.

In questa direzione sta il pregio principale della danza di Zaccaria: incorporare l’organicità della mitologia di Makara, e per estensione indiana, verso un superamento della dicotomia Natura/Cultura. Gli inserti ironici e giocosi di cui il pezzo è contrappuntato fanno ulteriormente ben sperare per la sua riuscita finale. Il gesto di Zaccaria è elegante e a tratti sontuoso: ritroviamo la sua firma concettuale ed esecutiva, che aveva raggiunto un alto punto di sintesi in Carnet Erotico, presentato a Resistere e Creare 2019.

Rimane un appunto di fondo sulla rappresentazione a cui si è assistito: in alcuni momenti di transizione, la musica muta di corporeità e definizione, in una pausa è sostituita dal silenzio. La coreografia pare non mutare in nulla di fronte a questi scarti, ponendo il problema di questa scelta allo spettatore.




Un altro modo ancora di accostarsi al mito classico è quello della Equilibrio Dinamico Dance Company che, in Equal To Men, ideato da Roberta Ferrara e realizzato da Tonia Laterza, fa riferimento al passo dell’Iliade in cui Omero equipara la forza della amazzoni a quella degli uomini: “un segno di rispetto nella società greca patriarcale […]. Un mito e un archetipo che rivivono oggi, con urgenza, nelle nostre vite”, recita la nota di regia. Nel suo dialogo con l’ex compagno Pietro Consagra (Vai pure, 1980), Carla Lonzi scriveva: “L’uomo si aspetta, come femminismo, una donna amazzonica, cioè una donna autosufficiente che dica le sue verità autorevolmente da un suo mondo assoluto. Questa è stata anche una tentazione dentro il femminismo, che per me è un’impossibilità e un’imitazione della condizione fallica maschile”. Dal punto di vista di un femminismo che intende abbattere il “mito culturale del protagonista” non attraverso l’erezione di un altro colosso monolitico, ma attraverso la presa di consapevolezza che l’identità sia strettamente legata al dialogo e al rapporto interpersonale, l’idea che il mito delle amazzoni debba essere urgentemente recuperato per affrontare i problemi di genere e di sessualità della società contemporanea suona come un’aberrazione sia teorica che politica. Nonostante questo, la coreografia di Ferrara e l’esibizione di Laterza si rivelano trascinanti (va qui ricordato che, nel 2018, entrambe sono state premiate al SoloTanz Festival di Stoccarda): con i capelli rasati e con indosso quella che sembra un’imbragatura da soldato, la performer si muove con una velocità e una potenza marziali, talvolta mettendo in atto tecniche che ricordano da vicino quelle delle arti del combattimento o quelle degli addestramenti militari (capriole, movimenti a carponi).

Quello che si vede non è affatto il raggiungimento di un canone maschile, ma la realizzazione di una grande, potente, femminilità.



Molto diverso il secondo lavoro che la stessa Equilibrio Dinamico Dance Company presenta all’interno di questa edizione di FuoriFormato: l’energia che nello spettacolo precedente era sprigionata dalla amazzonica danzatrice sola in scena sembra ora diluirsi, decomporsi e rimbalzare tra i quattro interpreti di Continuum, ideato da Matthias Kass e Clément Bugnon.

Se in Equal to Men era assolutamente chiaro l’oggetto della rappresentazione, l’interpretazione di Continuum ci risulta da subito più sfuggente. Come anticipato dal titolo, lo spettacolo si esprime come un flusso ininterrotto di movimento, continuo e tuttavia estremamente disomogeneo, volutamente netto nei suoi cambi di ritmo. Ed è forse proprio il ritmo - e le sue continue variazioni - a essere protagonista della performance, che, secondo quanto dichiarato dagli autori, vuole essere una riflessione sul tempo e sulla difficoltà umana a percepirne la continuità ed eternità. I danzatori si muovono ora perfettamente sincroni ora in progressivo ritardo l’uno rispetto all’altro, per poi tentare di diventare indipendenti gli uni dagli altri ma ritrovandosi periodicamente a compiere gli stessi gesti, nuovamente sincroni; la modalità della ripetizione e contemporanea disgregazione dei movimenti combina momenti di ossessiva frenesia e di distensione controllata. Tuttavia, al di là di questa intuizione generale da cui si può effettivamente cogliere un “sentimento del tempo” dai contorni più o meno definiti, tutto il resto di ciò che avviene in scena risulta, almeno a chi scrive, un insieme vago di suggestioni che non arricchisce realmente il concetto espresso dalla struttura. Quello che affiora è una combinazione di sensazioni che non si concretizzano nella mente dello spettatore in una reale comprensione del messaggio, ma rimangono al livello di impressioni poco decifrabili, tra l’ammirazione per la forma e la perplessità sulla sostanza.



A chiudere le tre giornate a Villa Bombrini un ultimo ritorno al mito: C&C Company con Don’t be Afraid porta sul palco il Fauno, “un virgulto che cavalca la storia, sorpreso ad amare e a scopare, a vincere e a perdere miseramente. Strappato alla terra, cade nell’eternità della notte” recita la descrizione sul programma.

Nel 1912, dopo la prima rappresentazione di L'Après-midi d'un faune di Vaslav Nijinsky - ispirato all’omonimo componimento di Mallarmé - Gaston Calmette scrisse su Le Figaro: “Abbiamo avuto un Fauno sconveniente, con pessimi movimenti di bestialità erotica e gesti di pesante spudoratezza”. Questa rappresentazione scandalosa del fauno è restituita in più punti da Carlo Massari che, solo sulla scena, passa dall’ostentatamente aulico all’estremamente greve, evocando un’alternanza di vittoria e sconfitta, conquista e miseria. Anche il movimento coreutico è una commistione di stili, che unisce reminescenze classiche a elementi propri della danza moderna, e si mescola a sua volta a inserti recitativi.

Lo spettacolo è ricco di riferimenti e citazioni, la ricerca artistica attenta è accompagnata da un’esecuzione molto curata; quello che tuttavia non arriva del tutto, secondo chi scrive, è che cosa ci sia all’interno di questo contenitore così accuratamente confezionato, che rischia di somigliare a una - bellissima, senza dubbio - scatola vuota. Di fronte a questa giustapposizione di elementi ben coreografati, recitati e danzati, tornando a casa a fine spettacolo l’impressione per uno spettatore non addetto ai lavori è quella di non aver ricevuto nulla di più di quanto scritto sul foglio di sala, e che, una volta sgombrato il palco, della performance rimanga davvero poco.



Legenda emoticOCA


IYNX

di Olivia Giovannini, Luca Serra, Giulia Ferrando

corpo Olivia Giovannini

suono Luca Serra

luce Luca Serra Giulia Ferrando

fotografia Giulia Ferrando

spettacolo extra call a cura di ReteDANZACONTEMPOLIGURE


Sul rovescio

interpretazione, coreografia, maschera Claudia Caldarano

produzione mowan teatro, Nuovo Teatro delle Commedie

con il sostegno di Virgilio Sieni /Centro Nazionale di Produzione, Company Blu, Atelier delle Arti, Associazione Mus.e, Le Murate


La notte di Makara

ideazione, coreografia, interpretazione Francesca Zaccaria

produzione Aldes

con il sostegno di Mibact / Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo, Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo


Equal to Men

di Equilibrio Dinamico Dance Company

coreografia, set concept Roberta Ferrara

costumi Franco Colamorea

con Tonia Laterza


Continuum

di Equilibrio Dinamico Dance Company

coreografia, set concept, costumi Matthias Kass e Clément Bugnon

con Nicola De Pascale, Camilla Romita, Serena Angelini, Beatrice Netti


Don't be afraid

di C&C Company

creazione originale Carlo Massari / C&C Company

collaborazione all'allestimento Hun Mok Yung

con Carlo Massari

disegno luci Francesco Massari

coproduzione C&C Company, Residenza IDRA, Teatri di Vetro

in collaborazione con TCVI, Residenze Genius Loci / Teatro Akropolis



oca, oche, critica teatrale
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