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  • Eva Olcese

Moi


Lisa Galantini porta in scena la vita passionale di Camille Claudel, la più grande scultrice del diciannovesimo secolo, a molti nota solo come musa e amante di Rodin. E lo fa con una delicatezza commovente.

Una valigia, una poltrona e una sedia sono gli unici elementi scenici. Camille entra in scena in déshabillé e, come ospiti non graditi e scrocconi, ci invita ad andarcene, a lasciarla sola. Quindi inizia a parlare e per ottanta minuti è come se ci inondasse di parole e sentimenti. Innanzitutto l’affetto per la casa - a Villeneuve-sur-Fère - e per la famiglia: il fratello e la madre sono interlocutori del tutto assenti eppure eccezionalmente vividi nelle descrizioni dell’artista, ma il vero protagonista di questa messa in scena è l’amore negato. L’amore negato prima dalla madre (che voleva un maschio, le dà un nome maschile e la lascerà internare a Montfavet) e poi da Auguste Rodin, quell'omuncolo, come lo chiama lei, che non riesce a non amare.

Lui che aveva promesso di fare di lei la sua unica modella e consorte, ma a cui non smette di pensare anche quando comprende di avergli donato invano le idee e gli anni migliori.

Camille gioca con le parole: il nome di Rose, moglie di Rodin, ha lo stesso suono di rospo così come la sua opera Clotho diventa Clito, Loto e poi Clitoride. Canticchia, balla, urla, scoppia in lacrime, ci accusa, si spoglia e ridacchia. E ancora, in una totale mancanza della quarta parete, ci invita a farle l’autopsia, a guardarla dentro. Accusata di essere una puttana opportunista, è in realtà fragile e passionale al tempo stesso: sporche erano solo le sue opere, così prive di grazia e lontane dalla perfezione aurea e spettacolare di Rodin.

Camille lo ammette, lei è come il vento: irascibile, impetuosa, squilibrata e senza freni.

Ma cosa vi è di male nel non aver freni? E’ questo quello che si domanda quando la luce si spegne, è costretta a vestirsi e iniziano quei trent’anni di prigionia, trent’anni scanditi dal carteggio che ascoltiamo attraverso un registratore. La valigia diventa uno scrittoio dal quale Camille ci legge le lettere al fratello Paul, che è stato ingannato e non l’ha compresa, quelle ricevute dal mercante d’arte e di nuovo altre lettere di Rodin. La voce di Camille si fa rotta e monocorde: alla fine l'hanno strappata pure al suo unico amore possibile, quello per la scultura.

Alberto Giusta riesce nel suo intento: raccontare una donna in cui arte e amore non hanno freni e si trasformano in quella che il mondo chiama follia.

Senza freni anche gli applausi del pubblico.

Elementi di pregio: l'ottima interpretazione, la gestione del palco e della fisicità di Lisa Galantini, la continua serie di domande rivolte al pubblico, chiamato a interrogarsi anziché soltanto ad ascoltare semplicemente una storia.

Limiti: l'inondazione di sentimenti e parole talvolta è sovrabbondante.

Liberamente tratto dalla Corrispondenza di Camille Claudel

di Chiara Pasetti Regia di Alberto Giusta

Organizzazione: Fondazione Luzzati Teatro della Tosse

Produzione: Associazione Culturale “Le Rêve et la vie”

Visto il 29 Ottobre 2017

durata 80 minuti

oca, oche, critica teatrale
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