top of page
Massimo Milella

Stories We Dance


Sisters, il corto vincitore

Il cinema non è un territorio d’esplorazione in cui l’O.C.A. si avventuri quotidianamente. Ma Stories We Dance, costola creativa e culmine di Fuoriformato 2019, ci offre l’opportunità di soffermarci su alcuni essenziali aspetti della narrazione danzata, attraverso i sette cortometraggi internazionali in competizione.

1) STORIES. WE. DANCE.

La dicotomia Stories/Dance suggerisce una necessità di trasformazione, quella dal reale al narrato e uno strumento, una lingua, appunto la danza. Ma il ponte inevitabile di questa urgenza artistica diventa il We, un Noi indefinibile che tende, edizione dopo edizione, ad allargare il cerchio di una comunità che, al di là, del contesto specifico relativo alla coreografia, sente sempre di più l’esigenza di riconoscersi in un gesto, cerca la profondità del non verbale.

Per questo, la platea del Cinema City - lungimirante la visione di Circuito Cinema Genova di aderire a questa iniziativa - non è solo costituita dalle danzatrici e dai danzatori della città o dalle realtà di operatrici e operatori che ne promuovono e garantiscono la diffusione tutto l’anno: ci sono quelli che, paradossalmente, contano ancora di più per il futuro artistico di Genova, i “curiosi”, coinvolti dal passaparola, allettati dall’idea di assistere a qualcosa di unico e difficilmente rivedibile nelle sale cinematografiche, in altri momenti della stagione.

Un We composito dunque che, consolidato da un’ottima tenuta di chi ci ha lavorato e dalla motivata macchina organizzativa di Akropolis e Rete Danza Contempoligure e Collettivo Augenblick, non può che promettere di crescere ancora.

2) DANZA - ERMETISMO / DANZA - OSCENO / DANZA - EXTRAQUOTIDIANO

Non tutta la danza che abbiamo visto sullo schermo ha seguito percorsi di immediata decodificazione. A cominciare da A guide to Breathing Underwater di Raven Jackson, regista, fotografa e poetessa nera, americana del Tennessee, uno degli stati che due secoli fa sbandierava con orgoglio lo schiavismo. L’oggetto del film è, e in esso si esaurisce del tutto, il corpo di Donald C. Shorter, performer che ha anche curato la propria coreografia: un corpo che incarna un inno all’adattamento, alla metamorfosi, dall’urbano al naturale, in una composizione nevrotica di primi piani e improvvisi campi lunghi che fanno letteralmente a pezzi la sua fisicità nello scenario cittadino, e poi ne ricompongono l’integrità sulla riva del mare, un oceano inquieto, al quale l’artista, nudo, dedica una gestualità sacra, diretta all’orizzonte. Il principio di sottrazione di senso esplicito, in fase di montaggio, è l’equivalente ermetico della poesia che non vuole svelarsi. La danza, pur nella sua rinuncia alla comprensibilità, qui ha un valore di fusione con la natura, ma la spinta sostanzialmente più narrativa ed esplicita della maggioranza degli altri cortometraggi impedisce a quest’opera di visioni giustapposte e di reticenze di essere apprezzata davvero fino in fondo dal pubblico.

Così come il performer Shorter vaga nella città inospitale, soffocato da grattacieli-scatole e angoli di strade in cui perdersi, così, seguendo una strana traiettoria analoga, Wanderer,

opera taiwanese, ruota intorno all’idea di muoversi in un labirinto. Qui l’elemento che costringe alla danza è un’irresistibile identificazione con il cibo da parte di una giovane protagonista vestita di bianco. La location è apparentemente un mercato di Taipei, notturno nell’atmosfera, in cui pesci, ghiaccio, verdure diventano oggetti di un’evocazione dai significati oscuri, innescano metamorfosi mostruose, ingaggiano un dialogo gestuale e danzato con uno spirito che dormiva, nascosto nel mercato, dietro le bancarelle più remote, un demone angosciato: l’osceno che attrae, seduce, intrappola la donna nel suo vagabondare. Ma il gioco evocato dagli artisti taiwanesi, benché visivamente ricco, non riesce a utilizzare la danza in modo organico, emozionante. Gli intrecci gestuali, infatti, sembrano avere sempre un effetto onirico, extranarrativo, a volte didascalico.

La potenza dell’osceno, di fatto, sminuisce la portata della necessità della danza.

Sulle tracce dei simboli sfuggenti e misteriosi di Wanderer, troviamo, a un livello molto più interessante e narrativo, il mondo affascinante di Shadow Animals di Jerry Carlsson, opera molto solida, completa, sconvolgente.

La bravissima protagonista, una bambina figlia di due papà, si trova catapultata in una cena a casa di amici dei genitori che si rivela sin dall’inizio molto sinistra - il regista svedese nella sua carriera ha più volte toccato temi LGBT nei suoi film, anche se in questo caso la scelta di una famiglia omogenitoriale non si può considerare in alcun modo al centro dell’attenzione della sceneggiatura e va a comporre invece un quadro di normalità, che gli avvenimenti che seguono vanno a rompere. Gli adulti, tutti, compresi i suoi genitori, si dimostrano letteralmente inspiegabili per la povera bambina, che li osserva mangiare, danzare, salutarsi con gestualità segrete, apparentemente amichevoli e invece molto inquietanti, mentre un’ombra senza corpo che solo lei sembrerebbe vedere, cammina minacciosamente in casa. Lo sviluppo del cortometraggio è straordinario - la sceneggiatura è dello stesso Carlsson - mentre la qualità delle immagini, interni claustrofobici, pieni di aperture, sullo sfondo, verso stanze buie, che non vediamo, riesce a costruire un’identificazione fortissima del pubblico con gli occhi della bambina. Basta dare un’occhiata al sito di Jerry Carlsson per rendersi conto che questo suo lavoro, appena un anno fa, ha ottenuto una lista infinita di riconoscimenti nella galassia dei festival internazionali, ma non necessariamente legati al mondo della danza. Ed è forse questo il punto più scivoloso del bellissimo film del regista svedese: qui la danza è impiegata sia come gesto extraquotidiano - l’irriconoscibile modo di salutarsi di questi adulti - sia come fatto antropologico - la scena dal ballo di gruppo e poi a coppie, intriso di un’atmosfera orgiastica, demoniaca eppure nel contempo gelida, disumana - ma l’epicentro della sceneggiatura è il rapporto della bambina con le sue paure e il modo in cui queste vanno ad agire nel mondo degli adulti che la circonda. La danza dunque è solo una proiezione, un linguaggio incidentale, funzionale ad altro. In quest’ottica, benché sia forse uno dei film realizzati con più mestiere tra i sette finalisti in concorso, non può fregiarsi di vincere un contest intitolato Stories We Dance, o meglio non più di altri progetti che hanno forse centrato meglio il tema.

3) DANZA - LIBERAZIONE / DANZA - SEGRETO / DANZA - RIFUGIO

Olivier Garcia, regista di Skip and the Rhythm Rangers, lavora invece su un piccolo reportage sul grande tema del rapporto tra l’individuo e i condizionamenti sociali che ne plasmano i limiti e ne alimentano le frustrazioni. Skip ha 14 anni e nessuno nella sua scuola sa che lui studia

danza, perché, a momenti alterni, i pregiudizi, gli insulti, l’omofobia sono in grado di procurargli enormi sofferenze. In quindici minuti, densi di primi piani, momenti rubati alla realtà quotidiana del ragazzo, giri in bicicletta con i suoi amici danzatori che compongono il gruppo tutto maschile dei Rhytm Rangers, frammenti di prove, interviste forse a volte ai limiti di una certa retorica, Garcia usa la danza non come linguaggio o strumento, ma come contesto narrativo, tema sociale intorno al quale costruire una storia di liberazione, che accompagna lo spettatore nell’esibizione finale dei Rhytm Rangers, alle prese con il voguing, secondo gli intervistati, la più femminile delle varianti dell’hip hop. Proiettato all’inizio della serata, si lascia guardare con piacere, ponendo questioni che in contesti progressisti e illuminati non dovrebbero avere che una risposta comprensiva: in teoria, il cuore dell’opera di Garcia mette d’accordo tutti. Nella pratica, Skip è, purtroppo, un’eccezione.

Il meglio comunque deve ancora venire ed è sintetizzato nelle due opere che più di tutte raccontano lo Stories We Dance: Timecode di Juanjo Gimènez e Sisters di Daphne Lucker.

Il primo, di un navigato regista e produttore spagnolo, è stato premiato a Cannes come miglior cortometraggio ed è finito anche tra le nomination per uno dei premi Oscar di categoria: humour, freschezza, ritmo, imprevedibilità dei due perfetti interpreti fanno di Timecode un film divertente e piacevole, ma il suo merito principale è senz’altro quello di portare a un livello poetico - e politico - la tematica della danza come segreto, come luogo ideale di creatività privato dello spazio reale di cui avrebbe bisogno per esprimersi e che anima, di nascosto al padrone di un grosso garage, la relazione dei suoi due dipendenti, che ballano in segreto, ripresi dalle telecamere interne, frammenti di bellezza pura, spettacoli privati dei quali loro stessi sono unici spettatori.

Non c’è amore, non c’è sessualità. C’è la grazia di un free style che accomuna due creature diversissime tra loro, entrambe costrette a indossare una divisa, a spartirsi le ventiquattro ore, di giorno lei, di notte lui. Senza dirsi alcuna parola che non sia di circostanza “Com’è andata stanotte?” “Tutto bene”. Nel finale, in cui la magia si esaurisce, i due non lavorano più nel garage e il padrone, stereotipo dell’abbiente di mezz’età, signorile e austero, scopre per puro caso quello che i suoi ex dipendenti hanno fatto negli spazi gelidi del loro luogo di lavoro. Diventa occasione per una boccaccesca risata, che coinvolge il pubblico nel sovvertimento dell’ordine socio-economico: la ribellione è stata ormai realizzata, in segreto.

Ma nonostante il ricco pedigree, non è stato Timecode a trionfare, sia per la giuria che per il pubblico del cinema, bensì Sisters, opera prima con cui una regista olandese di venticinque anni si è diplomata alla Filmacademie di Amsterdam. L’effetto creato dal suo film nel pubblico è stato stupefacente. A un’attenta riflessione, la sua materia filmica è stata la danza, anzi uno spettacolo di teatro danza vivido, impressionante, perfettamente autonomo nella sua scrittura drammaturgica, reso chiarissimo, comprensibile, intenso dal montaggio serrato e sensibile. Tre sorelle di età diverse, una giovane, un’adolescente, una bambina, giocano con i loro corpi in uno spazio degradato e abbandonato, in cui un letto matrimoniale campeggia in mezzo al vuoto, cocci di vetro per terra, pareti scrostate. I fari di una macchina che si ferma all’improvviso fuori dalla porta, i passi profondi di scarpe da uomo in avvicinamento, il nascondiglio delle ragazze, il rapimento di una di loro, la più grande, il tentativo di resistere delle altre due, il ritorno della sorella maggiore, in seguito alla violenza, la forza espressiva con cui le sorelle tornano a danzare insieme, colmando con la loro gestualità, il silenzio, la crudeltà, la morte che le circonda. Qui, più che un atto di resistenza, che si presterebbe a varie interpretazioni, anche inerenti al ruolo politico e sociale della danza nel contesto delle arti in genere, la Lucker propone una danza come rifugio, come esempio di comunità ideale in cui i suoi membri riconoscono le loro individualità in un collettivo, partecipano delle emozioni di tutti, si mettono in uno stato di ascolto, di relazione, di complicità. La danza, in Sisters, è la tenace costruzione di una famiglia artistica autonoma e autosufficiente - il letto matrimoniale come simulacro di una famiglia tradizionale, opposto alla presenza delle tre ragazze, orfane alle quali non manca alcuna figura di padre o di madre, esse stesse padri e madri le une per le altre - in grado non di rovesciare il mondo esterno, che la violenta e la minaccia, ma di potersene distaccare con orgoglio e bellezza, in un rifugio luminoso in cui quando una si fa male, le altre la curano. Intenso, commovente.

4) DANZA ARCHEOLOGICA / FUORI CONCORSO

La composita giuria di Stories We Dance prevede un binomio genovese, Arianna Sortino, giovane stage designer e artista visuale e Federica Loredan, coreografa, pedagoga, danzatrice tra le più versatili nella già variegata realtà locale, poi due ospiti, Ariadne Mikou, accademica a Londra che porta avanti da tempo una metodologia pratica e teorica che fa coesistere danza e video-arte; Matteo Bernardini, che da un percorso di formazione nella Scuola Holden di Torino ha poi seguito una strada da regista che lo ha portato ad utilizzare il mezzo cinematografico, oltre che per i propri progetti di documentarista e autore, come strumento per raccontare artisti e musicisti internazionali.

Ed è a loro che va il nostro premio personale, per non aver selezionato, come progetto vincitore, Les Indes Galantes, ultimo film in concorso di cui parliamo.

Il cortometraggio del francese Cogitore, commissionato dall’Opera di Parigi - il giovane artista metterà in scena nel prossimo settembre, per commemorare i 350 anni di attività del glorioso teatro parigino, l’intera opera-ballet musicata nel 1735 da Jean-Philippe Rameau - è senz’altro il più bello, il più potente, il più pulito, il più artistico dei sette progetti, innova sul piano dell’archeologia della danza, innestando su un passaggio musicale della celebre opera ballet di inizio Settecento - all’epoca si chiamava semplicemente ballet - l’evocazione del Krump, variante dell’hip hop innescata ai primi anni Novanta del Novecento da un movimento suburbano di Los Angeles, dall’anima e dalla pelle nera che cercava di sfogare con la danza l’aggressività e la rabbia di un’America ancora dilaniata dall’odio razziale e dall’emarginazione di una fetta enorme di popolazione. Le due culture si incontrano e combaciano perfettamente, non solo per la fisicità imponente ed evocativa degli interpreti del film di Cogitore, coadiuvato dalle sapienti coreografie di Bintou Dembele, Igor Caruge e Brahim Rachiki, ma anche perché ai tempi di Rameau, il ballet, come forma lirica teatrale era nato da pochissimi anni e la danza stessa subiva, rispetto allo sviluppo drammaturgico dell’opera, un fenomeno di emarginazione, in cui i danzatori sembravano essere parte del tutto irrilevante rispetto a quanto accadeva in scena. I danzatori di Les Indes Galantes erano ai margini della caratterizzazione scenica, i loro movimenti generici, inclini agli stereotipi di folclore.

La danza riprende il suo posto, con forza, con potenza inaudita, al centro di una tradizione culturale che per lungo tempo l’ha emarginata.

Non può sfuggire che quest’operazione sia dunque, sul piano intellettuale - e archeologico - , molto evocativa.

Eppure il titolo vincitore è stato l’esito del lavoro di diploma di una venticinquenne olandese alla prima esperienza vera. Ha vinto il lavoro di una donna, con tre donne protagoniste, che danzano per non morire.

Basta questo e si capisce perché la giuria - compresa quella, cosiddetta, popolare, ovvero il pubblico della sala, il We che dicevamo all’inizio - abbia votato proprio bene: Sisters è la necessità della danza, un inno alla sua urgenza.

Ecco, proprio non poteva vincere un altro film.

LEGENDA:

Comments


oca, oche, critica teatrale
bottom of page