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  • Irene Buselli

To be or not to be Roger Bernat | il doloroso esercizio di disconoscersi


To be or not to be Roger Bernat - dettagli

Se è vero che la caduta della quarta parete nella drammaturgia contemporanea è ormai tanto frequente da rappresentare un elemento quasi rassicurante – e non più di rottura –, è altrettanto vero che, nel momento in cui l’attore esce dal personaggio per rivolgersi direttamente al pubblico, l’atto di rivelarsi è in realtà un’ulteriore mistificazione: l’attore non smette di recitare sebbene finga di farlo, aggiungendo di fatto un grado di finzione a separare palco e platea.

Sembra che il teatro di ricerca, negli ultimi anni, stia concentrando la sua indagine proprio su questo margine fragile tra chi recita e chi assiste allo spettacolo: i ruoli convenzionali sono messi in discussione fino allo scardinamento del sistema binario attore-spettatore, il pubblico è spesso chiamato ad assumersi parte della responsabilità di quanto accade in scena, talvolta anche a partecipare attivamente – fino ad arrivare a concetti come il “teatro partecipativo” del regista Roger Bernat.

Lo spettacolo della storica compagnia Fanny & Alexander si inserisce proprio all’interno di questo confronto sulle regole del gioco-teatro. To be or not to be Roger Bernat inizia come una conferenza sull’Amleto tenuta nella finzione scenica dal regista catalano, interpretato da Marco Cavalcoli, unico attore in scena. Già questa prima forma ibrida di un teatro che sembra voler essere altro rimanda all’amletico dubbio del titolo: to be or not to be, l’interrogativo identitario per eccellenza. E come per Amleto la scelta più difficile da considerare è quella di non seguire il padre, anche nel teatro «l’esercizio più doloroso è quello di disconoscersi», di diventare altro, scavalcando tradizioni, radici, pregiudizi. Così la vicenda shakespeariana smette di essere solo l’oggetto della conferenza, diventa soggetto attivo ben oltre le parole di Bernat/Cavalcoli, inizia a inglobare l’intero meccanismo teatrale per arrivare a quella che è forse la tesi principale della pièce: il personaggio di Amleto, nel suo continuo indugiare – «leaving the action for tomorrow» – e nei suoi preparativi tormentati, non è che la rappresentazione dell’attore, costretto a prepararsi per settimane prima di andare in scena; e il pubblico, immobile spettatore degli eventi e tuttavia giudice di chi sta sul palco, non può che essere il Re. Il diktat che lo spettatore impone all’attore – materia certamente non nuova nella drammaturgia contemporanea – si concretizza qui nell’uso dell’eterodirezione: al pubblico viene chiesto di dirigere l’attore attraverso una pulsantiera, decidendo cosa debba recitare, con che ritmo, a che velocità. Lo spettatore esce quindi dal suo ruolo passivo per venire infine anche coinvolto sul palco e chiamato a recitare, in un meccanismo di partecipazione metateatrale che scopre ulteriori livelli di significato e al tempo stesso li moltiplica e li confonde.

Questa complessità semantica, in cui provocazioni e identità appaiono affastellati senza un ordine rassicurante, rischia di rendere la struttura dello spettacolo poco fluida e di privilegiarne la matrice concettuale a discapito dell’immediatezza. A mantenere piacevolmente fruibile la pièce è però l’incredibile capacità interpretativa di Cavalcoli, che – pur muovendosi a volte sul filo dell’esercizio di bravura – riesce a gestire perfettamente la non facile relazione col pubblico che un sistema teatrale di questo tipo comporta.

E se il riferimento continuo a grandi del teatro e della letteratura – da Handke a Petrolini, da Bene a Pessoa – rinsalda la propria ispirazione nella tradizione, i processi artistici di cui la longeva Compagnia si fa motore dimostrano, ancora una volta, un’autentica e coraggiosa vocazione per la ricerca.

Elementi di pregio: l’abilità imitativa e interpretativa di Marco Cavalcoli; il sottostante processo di ricerca.

Limiti: l’eterogeneità e la complessità della struttura intaccano in alcuni punti la sua immediatezza.

Visto al Cubo Teatro (Offtopic), Torino.

Ideazione: Luigi de Angelis e Chiara Lagani, Drammaturgia: Chiara Lagani, Regia: Luigi de Angelis

Produzione: Fanny & Alexander. Parte del testo deriva dal rimaneggiamento di una serie di interviste fatte a Roger Bernat.

oca, oche, critica teatrale
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